Il mio interesse per il Darwin Day milanese risale alla prima edizione. Posso fornire le prove. C’è una foto in rete dell’edizione 2004 che mi ritrae tra il pubblico…..
Quest’anno la mia partecipazione è stata parziale e limitata alle giornate di venerdì e sabato.
Ad essere precisi giovedì sera ho provato a collegarmi da casa via Internet. Purtroppo la mia connessione con modem usb dava problemi, così nonostante abbia girovagato su e giù per la casa impugnando il portatile come la bacchetta del rabdomante non sono riuscita a sentire granché della conferenza di Eva Jablonka.
Certo lo streaming (quando funziona) è una gran bella innovazione tecnologica e consente di allargare a dismisura il bacino degli utenti - si va in mondovisione - però, lo dico per me, se sono a casa finisce che in contemporanea faccio altre cose e ciò non giova alla concentrazione.
Così il giorno successivo sono andata a Milano, appositamente e in anticipo sull’orario di inizio. Pronta ad accaparrarmi un buon posto a sedere.
Confesso che, sulle prime, scorrendo il programma e scoprendo che il titolo del convegno era La natura addomesticata” avevo un po’ storto il naso. Una “purista” come me vive con un senso di fastidio l’ineluttabile intervento umano sulla natura, essendo vittima, forse, di un sogno romantico che vede protagonista una Natura cieca che segue i suoi ritmi e i suoi meccanismi evolutivi, in silenzio, nello scorrere imperturbabile del tempo, infischiandosene di Homo sapiens…
Tuttavia, applicando un minimo di razionalità non si può negare che l’addomesticazione, come aveva già ben capito il festeggiato Charles Darwin, è un ottima palestra per testare certe teorie…e per comprendere la “trasmutazione” delle specie.
Le relazioni in programma spaziavano nell’universo dell’addomesticazione animale e vegetale, mettendone in luce i diversi aspetti e prospettive. Tutte le presentazioni sono state notevoli per rigore di ricerca e capacità di offrire spunti di riflessione.
Molto azzeccata ed originale l’idea di presentare anche noi umani in un approccio selvatico vs domestico. Utile tanto per mettere subito in chiaro qual è il nostro posto nella natura …..quello di una specie biologica tra le tante.
Questo siamo, e non dobbiamo dimenticarcelo mai. Ma non siamo solo questo.
Il lavoro di Giorgio Manzi aveva un’evidente funzione provocatoria e l’intento di fare riflettere.
Direi che l’obiettivo sia stato pienamente raggiunto. Avverto, infatti, un senso di disagio nell’attribuire l’aggettivo domestico a noi umani, un po’ perché quando penso all’addomesticazione penso ad una selezione direzionale ed intenzionale e ciò implica, necessariamente, un selezionatore ed un selezionato.
Il motivo d’inquietudine è dato dal fatto che, dal punto di vista strettamente connesso all’aspetto biologico, non ci sono ragioni plausibili per escludere la specie Homo sapiens dal novero delle specie addomesticabili, poiché, come credo, nella nostra biologa non c’è qualcosa di particolare, tale da poter escludere a priori il processo.
Inoltre va da sé che, essendo noi umani al vertice della “scala intellettiva” questo processo non potrebbe che essere intraspecifico. Per fortuna “la legge morale dentro di noi” ci impedisce di sperimentare simili abomini (almeno oggi) o forme più o meno deviate di eugenetica o interazioni cibernetiche. Come disse Aldo Schiavone al Festival della scienza di Genova 2007, la tecnica non ci deve portare a mettere in dubbio l’unicità della specie Homo sapiens.
Dunque pur essendo una specie potenzialmente addomesticabile…….. non siamo domestici.
A pensarci bene però non siamo neppure una specie naturale. Circa 10.000 anni fa con l’invenzione dell’agricoltura abbiamo dato inizio ad un processo di manipolazione dell’ambiente che ci ha allontanato sempre più da condizioni di vita integrate nel mondo naturale. Pur essendo diventati una specie ubiquitaria, paradossalmente non siamo affatto “generalisti”, ma strettamente legati ad un tipo di habitat molto particolare, quello che ci siamo costruiti.
Molti dei circa sei miliardi di abitanti di questo pianeta oggi non sarebbero in grado di sopravvive solo di caccia e di raccolta.
I sopravvissuti sarebbero quelli in grado di “inselvatichirsi”. Ma allora noi invece siamo… domestici?
Penso che Homo sapiens non possa essere definito, né un animale selvatico, né un animale domestico, ma piuttosto un animale culturale: la proprietà emergente di un sistema complesso di natura e cultura.
Già la nostra complessa cultura.
Un processo di accumulo di conoscenze ed invenzioni, trasmesso con meccanismi lamarckiani, caratterizzato da momenti di espansione, da altri di recessione, di convergenze, di oblio, ritorni. Una roba complicatissima ed efficacissima attraverso la quale abbiamo modificato il pianeta, rendendolo habitat idoneo all’animale culturale .
Domare la natura è parte della nostra cultura ed è stato affascinante seguire alcune tappe dell’addomesticazione di specie animali come il maiale , il cane le capre e scoprire quale peso hanno avuto nella storia e nell’espansione geografica dell’umanità.
Devo dire di essere stata particolarmente colpita dalla relazione di Paolo Ciucci sulla addomesticazione del cane. L’estrema diversificazione morfologica delle razze canine mi ha sempre affascinato, come prova della possibilità di avere grandi cambiamenti di forme in tempi relativamente brevi.
Scoprire poi che responsabili di questi cambiamenti morfologici sono meccanismi come la eterocronia e la neotenia con funzione accelerativa del cambiamento, ha aggiunto fascino (da brividi) alla questione.
La selezione artificiale come intervento dell’uomo sulla natura fa riflettere e comporta implicazioni su più livelli.
Innanzitutto è prova ulteriore che le specie cambiano per effetto di meccanismi naturali. La selezione artificiale imprime una direzionalità (con effetti a volte imprevisti) al cambiamento, ma i fattori ed i meccanismi attraverso i quali si produce il cambiamento sono i medesimi che agiscono in natura. La selezione artificiale dimostra ancora una volta che l’evoluzione delle specie non segue un percorso predefinito e che l’adattamento è un effetto contingente valutabile a posteriori, non necessitato. Se non fosse così la selezione artificiale non potrebbe avere alcun successo.
Non solo. Le “manipolazioni” restituite in natura, vale a dire le specie domestiche inselvatichite, producono nuovi cambiamenti, non controllabili. Pensiamo ai branchi di cani inselvatichiti che si incrociano con i lupi appenninici Oppure pensiamo al Dingo, che ormai siamo portati a percepire come una specie naturale, anche se non lo è.
Tutto ciò non può non farci riflettere, ma comunque la si pensi, certo è che l’intervento umano sulla natura ha radici lontane ed è irreversibile.
E’ dunque assurdo avere paura degli OGM, poiché si tratta solo dell’ultima frontiera di un processo sorto addirittura prima dell’invenzione dell’agricoltura, infatti pare che l’addomesticazione del cane risalga addirittura a 20.000 anni fa .
Tuttavia, noi cittadini il problema etico ce lo dobbiamo porre, quindi è importante che ci vengano messi a disposizione con onestà tutti i dati necessari. Ogni intervento umano sulla natura non è un fatto isolato, interagisce con il tutto. Già Darwin, se non ho capito male, si era posto il problema della variazione correlata come ha ricordato Marcello Buratti, quindi è importante tenere conto di tutti i possibili effetti.
Ancora una volta un’informazione rigorosa ed obiettiva; quella insomma che tiene conto delle implicazioni, degli effetti collaterali anche su ampia scala temporale è l’unica via che porta a formare opinioni meditate nelle persone, consentendo loro di fare le scelte corrette sotto il profilo etico.
Poiché l’obiettivo principale di un convegno di divulgazione scientifica è quello di fare informazione, di stimolare la riflessione ed il desiderio di saperne di più, se anche uno solo dei relatori avesse ricevuto una richiesta di approfondimento via e mail, ciò costituirebbe prova del totale successo dell’impresa.
Naturalmente io so per certo che ciò è avvenuto….
Ed infine la presentazione della edizione italiana, curata da Telmo Pievani, di Taccuini di Charles Darwin.
A mio parere questo evento avrebbe dovuto essere collocato in chiusura della manifestazione: dulcis in fundo, alla moda dei latini.
Mi piace andare alla presentazione delle opere che mi interessano o a quelle dei libri dei miei autori preferiti….. e non solo nella speranza di un autografo con dedica.
La ragione è che alle presentazioni si imparano un sacco di particolari inediti; c’è modo di conoscere le motivazioni, i retroscena della pubblicazione dell’opera, direttamente dalla voce dei protagonisti
Con un opera come Taccuini di Charles Darwin questa esigenza era ancor più comprensibile. Un’opera difficile, frammentaria. Il percorso intellettuale di un giovane naturalista al ritorno dal “viaggio della vita” . Un’opera che l’autore non destinò, né avrebbe voluto destinare al pubblico, mettendolo anche per iscritto, in un caso: Nothing for any purpose
Ma allora perché pubblicare, se ciò era contrario alla volontà dell’autore?
La risposta che mi sono data a questa domanda, dopo la presentazione del libro, la lettura della prefazione di Niles Eldredge e le introduzioni di Telmo Pievani ad ognuno dei Taccuini pubblicati, è stata questa: un puro atto d’amore.
Il tributo d’affetto e stima verso un uomo straordinario che ha dato molto alla storia del pensiero scientifico. Il desiderio di fare conosce il percorso intellettuale di un uomo che ha avuto la capacità di osservare i fenomeni naturali senza preconcetti, affidandosi alla oggettività dei dati ed al rigore di un metodo.
Alla luce di queste motivazione, Charles Darwin avrebbe certamente apprezzato l’iniziativa.
Manuela Lugli
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