Studiare la coscienza anche a dispetto della soggettività: è questo l’obiettivo del neuroscienziato americano che colma la “non esaustiva” riconducibilità scientifica dell’emersione dei qualia con un’epistemologia “brain based”.
Gerald Edelman (1), con la sua pluriennale attività di ricerca neuroscientifica, ci ha fornito una complessa ma coerente teoria scientifica della coscienza basata sull’attività cerebrale (2). Nel suo ultimo contributo, Seconda natura (3), Edelman descrive nel dettaglio le conseguenze che una spiegazione scientifica della nostra “esperienza fenomenica” comporta: chiarisce la relazione tra eventi fisici e eventi mentali, distruggendo il dualismo mente/corpo e riposizionando la ragione dentro il corpo; regala una visione più chiara del nostro posto nell’ordine naturale; allontana il “processo cosciente” sia dai modelli idealistico-razionalistici, sia da “illusioni” logicistiche, istruzionistiche o computazionali; aiuta a colmare la separazione tra le scienze e le discipline umanistiche; permette la costruzione di un artefatto dotato di coscienza (4).
Edelman riconosce che spesso nella nostra testa consideriamo il mondo in modi che “sembrano naturali” o che sono “una seconda natura”, anche a dispetto delle evidenze scientifiche: spesso ci attraversano la mente pensieri svincolati dalle nostre descrizioni realistiche della natura. L’obbiettivo di Edelman in questo testo è esplorare l’interazione che sussiste tra la natura della mente e la sua “seconda natura”, tentando una loro conciliazione nell’ambito di un’epistemologia basata sul cervello.
Nella sua teoria sulla coscienza, egli ha mostrato come un insieme di eventi evolutivi ha prodotto le basi neuroanatomiche per quel processo, tanto complesso quanto centrale ai fini dell’emersione della coscienza, chiamato “rientro”: questo ha portato allo sviluppo dell’enorme numero di stati discriminativi, detti anche qualia, caratteristico dell’esperienza cosciente. Il cervello e la mente sono quindi emersi come prodotto della selezione naturale e il cervello funziona, allora, come un sistema selettivo. Ciò mostra gli effetti della contingenza e dell’irreversibilità storica che fanno variare le reti neuronali da individuo a individuo. Ora, dice Edelman, il punto è che noi possiamo studiare, descrivere scientificamente, i “correlati” neurali della coscienza, ma tutto ciò non potrà farci comprendere “come” emergano i qualia: la complessità, l’irreversibilità e la contingenza storica della nostra esperienza fenomenica fanno escludere la possibilità generale di ricondurre a una descrizione scientifica certi prodotti della nostra vita mentale. Seppure i fondamenti della coscienza risiedono nel cervello, e seppure le strutture dinamiche del cervello che portano a tali proprietà coscienti sono descrivibili scientificamente, bisogna tener conto dell’irriducibilità di certe esperienze coscienti soggettive. La descrizione scientifica non potrà mai sostituirsi all’esperienza: la prima ci aiuta a comprendere la nostra esperienza ma bisogna riconoscere la priorità dell’esperienza nel dare origine alle descrizioni che illuminano le basi dell’esperienza stessa. Bisogna tener conto della ricca complessità e della storia individuale delle reti cerebrali degenerate e sebbene senza dubbio esistano regolarità di comportamento e di intenzionalità, queste sono variabili, ricche e dipendono dalla cultura e dal linguaggio. La soggettività è, quindi, irriducibile.
Edelman, allora, ritorna sui suoi passi? Rinnega il suo quadro scientifico in favore di una natura “meta” fisica della coscienza? Assolutamente no! Innanzitutto perché una spiegazione scientifica esclusivamente riduzionistica della nostra “seconda natura” non è, secondo lui, né desiderabile né probabile né imminente: con questa mossa Edelman si libera, se mai ne sia stato colpito,
dall’accusa di “scientismo” ovvero di condurre un riduzionismo scientifico estremo, che riduce in toto la nostra attività mentale esclusivamente alle attività neuronali. In secondo luogo, escludere la possibilità di ricondurre a una descrizione scientifica l’emersione dei qualia non significa invocare strani stati fisici o ritornare a ipotesi dualistiche: Edelman è chiaro quando afferma che tutta la nostra vita mentale, riducibile e no, si basa sulla struttura e sulla dinamica del cervello. Inoltre, e qui sta la forza innovativa della sua tesi, Edelman pone rimedio al “gap” che si crea tra una descrizione scientifica dei correlati della coscienza e il “modo” in cui questa emerge: egli, infatti, presenta argomenti a favore di una teoria della conoscenza che si fonda sulla comprensione del funzionamento del cervello con l’obbiettivo di collegare le scienze del cervello alla conoscenza umana, l’epistemologia, ossia la teoria della conoscenza, con l’impresa scientifica.
Un epistemologia di questo tipo, fondata saldamente sulla scienza del cervello, consente infatti di far luce su tanti errori logico-semantici che hanno influenzato negativamente gli studi della coscienza che, di conseguenza, hanno precluso la possibilità di analizzare il funzionamento del cervello dal punto di vista gnoseologico. Il più importante errore forse fra tutti è quello di non esser riusciti a distinguere tra causalità fisica e implicazione logica. L’attività del nucleo talamocorticale non causa la coscienza e non c’è quindi nessun “ritardo temporale” tra i processi cerebrali: l’azione neurale del nucleo implica la coscienza, è un processo che consiste in un enorme varietà di qualia, ovvero le discriminazioni implicate dall’attività dinamica (interattiva) del nucleo talamocorticale. Il problema di mettere in relazione l’azione neuronale con l’esperienza soggettiva fenomenica si risolve, quindi, con un’analisi causale: i qualia sono implicati dai neuroni del nucleo la cui attività produce stati integrativi complessi che possono cambiare nuovi stati e scene coscienti. C, ovvero i qualia, sono implicati da C' e, quindi, anche se come abbiamo visto, bisogna tener conto dell’irriducibilità di certe esperienze coscienti soggettive, dobbiamo accettare allo stesso tempo che la nostra “seconda natura” derivi da fondamenti indagabili scientificamente.
L’epistemologia basata sul cervello, continua Edelman, si basa sull’analisi del darwinismo neurale degli stati coscienti e l’evoluzione e la selezione dei gruppi neuronali forniscono le basi e i vincoli della conoscenza. Ma non in maniera esaustiva! Sebbene tutta la nostra conoscenza dipenda dai nostri stati coscienti, la motivazione (cosciente o meno), l’emozione o il riconoscimento di configurazioni di sé sono tutti fattori critici per l’acquisizione della conoscenza. L’analisi della coscienza condotta dalla teoria globale della selezione dei gruppi neuronali propone di espandere la concezione naturalizzata della conoscenza per render conto quindi anche dell’intenzionalità e della relazione tra l’esperienza emotiva con la conoscenza. Ma ancora non basta: il cervello è un sistema selettivo “incarnato”, legato inscindibilmente con il corpo che “lo ospita”, e sia questo che il corpo sono inseriti nel mondo reale che necessariamente influenza la loro dinamica. L’interazione cervello, in primis processo cosciente, corpo e ambiente (econicchia) è quindi fondamentale nell’acquisizione della conoscenza.
L’epistemologia brain-based tiene, perciò, conto dell’ eterogeneità delle fonti conoscitive e, pur riconoscendo la supremazia della selezione naturale , dà rilievo alle origini epigenetiche della struttura e della dinamica cerebrale: fa dipendere lo sviluppo del cervello dall’azione sul mondo e dall’azione del mondo e fa stabilire i criteri normativi per la verità a fattori storici, socioculturali e linguistici. Inoltre, un’epistemologia siffatta, riconosce anche una pluralità di verità: la scienza si occupa della verità verificabile, ma c’è anche una verità logica, una storica. Le parti della nostra seconda natura che sembrano allontanarsi maggiormente dalla verità spesso sono proprio quelle necessarie per stabilirne di nuove. Tuttavia la verità non è un dato di fatto, è un valore per cui dobbiamo lavorare nelle nostre interazioni private e interpersonali.
Ma quali sono per Edelman i limiti di una tale epistemologia? Dobbiamo innanzitutto riconoscere che l’esplorazione dettagliata del funzionamento del cervello è ancora ad uno stato iniziale: cominciamo appena, secondo il neuroscienziato, a comprendere come il cervello permetta il linguaggio, ovvero il più potente veicolo per l’elaborazione della conoscenza. Inoltre, alla natura noi aggiungiamo una seconda natura, ovvero l’insieme delle percezioni, dei ricordi e degli atteggiamenti individuale e collettivi: alla conoscenza scientifica va aggiunta la conoscenza del senso comune derivata dall’esperienza quotidiana e ciò comporta un limite nell’applicabilità diretta di una tale epistemologia.
Ma nonostante ciò, considerare “morta” l’epistemologia secondo Edelman è eccessivo. Abbiamo visto come consegnare una base scientifica all’epistemologia è oltremodo remunerativo, ma c’è di più. Con il tono di colui che si rende conto dell’enorme portata delle sue affermazioni, Edelman dichiara che nell’ambito di una tale epistemologia, accettando la teoria del darwinismo
neurale che riconosce le dimensioni storiche e creative del pensiero umano, non diviene necessario separare la scienza dalle discipline umanistiche. Il nostro cervello comprende sia la scienza sia la storia: esso è emerso nel corso dell’evoluzione da una serie di eventi collegati ad accadimenti storici e sia questo che i suoi prodotti si sono sviluppati quindi in un contesto storico. I processi che danno origine alla conoscenza includono tanto le scienze quanto le discipline umanistiche e, in questo modo, la separazione drastica che da sempre interessa queste due culture non diviene più necessaria.
(1) G. Edelman è nato a New York nel 1929. Dal 1981 è direttore del Neurosciences Institute della Rockfeller University di New York, e oggi è direttore del medesimo istituto a La Jolla-San Diego, in California. Ha ricevuto il premio Nobel per la medicina e la fisiologia nel 1972, per il suo lavoro di ricerca sulla struttura e le differenze degli anticorpi.
(2) In questo articolo non tratterò in maniera dettagliata la teoria della coscienza proposta da Edelman, concentrandomi invece sulle sue conseguenze. Per offrire un supporto alla lettura ho inserito un glossario cui rinvieranno tutti i termini tecnico-scientifici presenti nell’articolo. I frutti della sua ricerca pluriennale nel campo delle neuroscienze sono riassunti da Edelman in Più grande del cielo. Lo straordinario dono fenomenico della coscienza, Einaudi, Torino 2004, mentre una teoria dettagliata della coscienza è descritta da Edelman e da Giulio Tononi in Un universo di coscienza. Come la materia diventa immaginazione, Einaudi, Torino 2000. Per un ulteriore approfondimento rinvio alla trilogia tematica sulla morfologia e sulla natura della mente (1. Topobiologia. Introduzione all’embriologia molecolare, Bollati Boringhieri, Torino 1993; 2. Darwinismo neurale. La teoria della selezione dei gruppi neuronali, Einaudi, Torino 1995; 3. Il presente ricordato, Rizzoli, Milano 1991) il cui “sunto” viene esposto da Edelman in Sulla materia della mente, Adelphi Edizioni, Milano 1993.
(3) Gerald Edelman, Seconda natura. Scienza del cervello e conoscenza umana, Raffaello Cortina Editore, Milano 2007.
(4) L’ultimo contributo in italiano di Edelman al riguardo e stato pubblicato dalla rivista Darwin, numero 23, pp. 78-83
Simona Ruggeri
Bibliografia
Edelman, Gerald M.
1987 Neural Darwinism. The Theory of Neuronal Group Selection, Basic Books, New York, trad. it. Darwinismo neurale, Einaudi, Torino 1995.
1988 Topobiology. An Introduction to Molecular Embryology, Basic Books, New York, trad. it. Topobiologia. Introduzione all’embriologia molecolare, Bollati Boringhieri, Torino 1993
1989 The Remembered Present. A Biological Theory of Consciousness, Basic Books, New York, trad. it. Il presente ricordato, Rizzoli, Milano 1991
1992 Bright Air, Brillant Fire. On the Matter of the Mind, Basic Books, New York, trad. it. Sulla Materia della mente, Adelphi Edizioni, Milano 1993.
2004 Wider Than the Sky. The Phenomenal Gift of Consciousness, Basic Books, New York, trad. it. Più grande del cielo. Lo straordinario dono fenomenico della coscienza, Einaudi, Torino 2004.
2006 Brain Science and Human Knowledge, Basic Books, New York, trad. it. Seconda Natura. Scienza del cervello e conoscenza umana, Raffaello Cortina Editore, Milano 2007.
Edelman, Gerald M. e Tononi, Giulio
2000 A Universe of Consciousness. How Matter Becomes Imagination, Basic Books, New York, trad. it., Un Universo di coscienza, Enaudi, Torino 2000.
Qui troverete avvisi, comunicazioni, segnalazioni su tutte le novita' che potrebbero interessarvi: articoli, libri, eventi, temi controversi, bibliografie, dossier, ecc....
Sunday, March 16, 2008
I nostri consigli se volete acquistare un libro sull'evoluzione!
I Consigli di Pikaia per gli acquisti.
Con questa rubrica proseguiamo l'opera di segnalazione e annuncio delle nuove e imminenti pubblicazioni sui temi a noi cari dell'evoluzione. Aggiornamento del 16 marzo 2008
Vi proponiamo (segnalate in rosso) le novità apparse in queste ultime settimane. Gli argomenti non sono rigorosamente evoluzionistici ma coprono tutto l'arco delle scienze con escursioni nel mondo della letteratura, della comunicazione scientifica, dell'economia, ecc........
Contiene le sezioni:
Nuove pubblicazioni -Da non perdere – I Classici – Per ragazzi - Le bibliografie
Contributi e segnalazioni sono benvenuti.
Paolo Coccia
Milano, 16 marzo 2008
Con questa rubrica proseguiamo l'opera di segnalazione e annuncio delle nuove e imminenti pubblicazioni sui temi a noi cari dell'evoluzione. Aggiornamento del 16 marzo 2008
Vi proponiamo (segnalate in rosso) le novità apparse in queste ultime settimane. Gli argomenti non sono rigorosamente evoluzionistici ma coprono tutto l'arco delle scienze con escursioni nel mondo della letteratura, della comunicazione scientifica, dell'economia, ecc........
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Paolo Coccia
Milano, 16 marzo 2008
La vita sulla Terra è di origine extraterrestre?
Il ritrovamento di alte concentrazioni di aminoacidi in meteoriti suggerisce che queste molecole, fondamentali per la costituzione delle proteine e della vita sulla Terra, possano avere un'origine extraterrestre.
Gli aminoacidi sono piccole molecole organiche che costituiscono l'impalcatura delle proteine, macrocomolecole fondamentali per tutte le cellule, vegetali e animali. Le proteine, infatti, svolgono le funzioni più disparate all'interno degli organismi, dal sostegno alla protezione, dalla respirazione alla catalisi delle reazioni chimiche. Data la loro assoluta importanza per i viventi, risulta necessario comprenderne la formazione, come passo evolutivo fondamentale verso l'origine della vita sul nostro pianeta.
Già da molti anni, i ricercatori di tutto il mondo hanno dimostrato la possibilità della costituzione degli aminoacidi a partire da molecole inorganiche. In particolare, il biochimico americano Stanley L. Miller ha ricostruito in laboratorio il cosiddetto "brodo primordiale", simulando l'ambiente terrestre e le condizioni atmosferiche ipotizzati agli albori della vita, ottenendo, tramite un complesso insieme di reazioni chimiche, alcune molecole organiche, compresi gli aminoacidi.
Nonostante questa grande conquista della ricerca moderna, la presenza di queste piccole molecole anche in alcuni meteoriti giunti sulla Terra, ha fatto ipotizzare a molti esperti la possibile origine extraterrestre degli aminioacidi. Questa versione non è mai stata particolarmente suffragata da ricerche e analisi sperimentali, in quanto la concentrazione delle molecole organiche sembrava sempre molto bassa per poter aver dato origine a tutto quello che vediamo intorno a noi.
Una recente analisi chimica, condotta da ricercatori del Leiden Institute of Chemistry, in Olanda, del Carnegie Institution for Science di Washington e del Imperial College London, ha rinvenuto concentrazioni di aminoacidi in due condriti, meteoriti che hanno avuto origine durante la formazione del sistema solare, molto superiori a quelle rilevate in ogni altro materiale proveniente dallo spazio. I due meteoriti, come si legge sulle pagine di Meteoritics and Planetary Science, contengono infatti rispettivamente una concentrazione di aminoacidi pari a 180 e 249 ppm (parti per milione), circa dieci volte superiore ai valori massimi fino ad ora mai rinvenuti (15 ppm).
Considerando che tra circa 3,8 e 4,5 miliardi di anni fa, il periodo che si pensa abbia visto l'origine delle prime forme di vita, la Terra subì un imponenente bombardamento di materiale extraterrestre, gli autori della ricerca sostengono che non può essere rifiutata l'ipotesi di un incremento del contenuto di aminoacidi proveniente dallo spazio nel brodo primordiale.Secondo questa visione il contributo extraterrestre all'origine della vita sulla Terra sarebbe stato, se non fondamentale, quanto meno non trascurabile.
L'articolo "Indigenous amino acids in primitive CR meteorites" è disponibile online.
Andrea Romano
Gli aminoacidi sono piccole molecole organiche che costituiscono l'impalcatura delle proteine, macrocomolecole fondamentali per tutte le cellule, vegetali e animali. Le proteine, infatti, svolgono le funzioni più disparate all'interno degli organismi, dal sostegno alla protezione, dalla respirazione alla catalisi delle reazioni chimiche. Data la loro assoluta importanza per i viventi, risulta necessario comprenderne la formazione, come passo evolutivo fondamentale verso l'origine della vita sul nostro pianeta.
Già da molti anni, i ricercatori di tutto il mondo hanno dimostrato la possibilità della costituzione degli aminoacidi a partire da molecole inorganiche. In particolare, il biochimico americano Stanley L. Miller ha ricostruito in laboratorio il cosiddetto "brodo primordiale", simulando l'ambiente terrestre e le condizioni atmosferiche ipotizzati agli albori della vita, ottenendo, tramite un complesso insieme di reazioni chimiche, alcune molecole organiche, compresi gli aminoacidi.
Nonostante questa grande conquista della ricerca moderna, la presenza di queste piccole molecole anche in alcuni meteoriti giunti sulla Terra, ha fatto ipotizzare a molti esperti la possibile origine extraterrestre degli aminioacidi. Questa versione non è mai stata particolarmente suffragata da ricerche e analisi sperimentali, in quanto la concentrazione delle molecole organiche sembrava sempre molto bassa per poter aver dato origine a tutto quello che vediamo intorno a noi.
Una recente analisi chimica, condotta da ricercatori del Leiden Institute of Chemistry, in Olanda, del Carnegie Institution for Science di Washington e del Imperial College London, ha rinvenuto concentrazioni di aminoacidi in due condriti, meteoriti che hanno avuto origine durante la formazione del sistema solare, molto superiori a quelle rilevate in ogni altro materiale proveniente dallo spazio. I due meteoriti, come si legge sulle pagine di Meteoritics and Planetary Science, contengono infatti rispettivamente una concentrazione di aminoacidi pari a 180 e 249 ppm (parti per milione), circa dieci volte superiore ai valori massimi fino ad ora mai rinvenuti (15 ppm).
Considerando che tra circa 3,8 e 4,5 miliardi di anni fa, il periodo che si pensa abbia visto l'origine delle prime forme di vita, la Terra subì un imponenente bombardamento di materiale extraterrestre, gli autori della ricerca sostengono che non può essere rifiutata l'ipotesi di un incremento del contenuto di aminoacidi proveniente dallo spazio nel brodo primordiale.Secondo questa visione il contributo extraterrestre all'origine della vita sulla Terra sarebbe stato, se non fondamentale, quanto meno non trascurabile.
L'articolo "Indigenous amino acids in primitive CR meteorites" è disponibile online.
Andrea Romano
Alle origini degli equilibri punteggiati
La teoria degli equilibri punteggiati ha rappresentato un importante contributo alla moderna biologia evoluzionistica. Nell'ultimo fascicolo della rivista Evolution: Education and Outreach Niles Eldredge racconta "le origini" della teoria.
Nel 1972 Stephen Jay Gould e Niles Eldredge pubblicano per la prima volta, all’interno del saggio intitolato “Punctuated Equilibria: An alternative to Phyletic Gradualism”, la teoria degli equilibri punteggiati, che avrebbe negli anni successivi contribuito a rivitalizzare fortemente il dibattito tra evoluzionisti di diverse scuole di pensiero in merito al concetto di gradualità nell’evoluzione biologica.
L’ultimo fascicolo della rivista Evolution: Education and Outreach pubblica uno straordinario articolo in cui Niles Eldredge racconta le origini della teoria degli equilibri punteggiati e come Eldredge e Gould arrivarono a formulare la loro teoria (anche se questo articolo tende a valorizzare maggiormente il contributo di Eldredge rispetto a quello di Gould).
Questo articolo, come fosse una sorta di stralcio della biografia di Eldredge, colpisce particolarmente, poiché racconta di questi due colossi della moderna biologia evoluzionistica nei panni di due “new graduate students” all’inizio della propria carriera ed alla prese con la discussione per conseguire il titolo di Dottore di ricerca. Eldredge racconta la storia di due giovani desiderosi di dare un contributo alla teoria della evoluzione tanto che scrive: “He (S.J. Gould n.d.a) thought it was absurd to think that discussions of theoretical matters should be in the hands of older, more mature scientists when really, if anything, it should be the province of the young, coming to their subjects with fresh minds and new insights. Why wait until you are 60?, he used to ask. And of course, he was right”.
Mauro Mandrioli
Eldredge, N. (2008). The Early “Evolution” of “Punctuated Equilibria. Education: Evolution and Outreach 1: 107-113.
Eldredge, N., Gould, S.J. (1972). Punctuated equilibria: an alternative to phyletic gradualism. pp 82-115 in "Models in paleobiology", edited by Schopf, TJM Freeman, Cooper & Co, San Francisco.
Gould, S.J., N. Eldredge. (1977). Punctuated equilibria: the tempo and mode of evolution reconsidered. Paleobiology 3: 115-151.
Nel 1972 Stephen Jay Gould e Niles Eldredge pubblicano per la prima volta, all’interno del saggio intitolato “Punctuated Equilibria: An alternative to Phyletic Gradualism”, la teoria degli equilibri punteggiati, che avrebbe negli anni successivi contribuito a rivitalizzare fortemente il dibattito tra evoluzionisti di diverse scuole di pensiero in merito al concetto di gradualità nell’evoluzione biologica.
L’ultimo fascicolo della rivista Evolution: Education and Outreach pubblica uno straordinario articolo in cui Niles Eldredge racconta le origini della teoria degli equilibri punteggiati e come Eldredge e Gould arrivarono a formulare la loro teoria (anche se questo articolo tende a valorizzare maggiormente il contributo di Eldredge rispetto a quello di Gould).
Questo articolo, come fosse una sorta di stralcio della biografia di Eldredge, colpisce particolarmente, poiché racconta di questi due colossi della moderna biologia evoluzionistica nei panni di due “new graduate students” all’inizio della propria carriera ed alla prese con la discussione per conseguire il titolo di Dottore di ricerca. Eldredge racconta la storia di due giovani desiderosi di dare un contributo alla teoria della evoluzione tanto che scrive: “He (S.J. Gould n.d.a) thought it was absurd to think that discussions of theoretical matters should be in the hands of older, more mature scientists when really, if anything, it should be the province of the young, coming to their subjects with fresh minds and new insights. Why wait until you are 60?, he used to ask. And of course, he was right”.
Mauro Mandrioli
Eldredge, N. (2008). The Early “Evolution” of “Punctuated Equilibria. Education: Evolution and Outreach 1: 107-113.
Eldredge, N., Gould, S.J. (1972). Punctuated equilibria: an alternative to phyletic gradualism. pp 82-115 in "Models in paleobiology", edited by Schopf, TJM Freeman, Cooper & Co, San Francisco.
Gould, S.J., N. Eldredge. (1977). Punctuated equilibria: the tempo and mode of evolution reconsidered. Paleobiology 3: 115-151.
Evoluzione e invecchiamento
Sul sito di Videoscienza.it è disponibile il video dell'interessante conferenza di Claudio Franceschi, ordinario di Immunologia presso l'Università di Bologna, tenutasi durante il Darwin Day di Roma. Il ricercatore discute gli aspetti evolutivi e genetici dell'invecchiamento e le ragioni che portano la nostra specie alla senescenza
Tutto Linneo online
E' stata completata la prima parte del programma di digitalizzazione delle opere e delle collezioni di Linneo. Sono dunque finalmente disponibili e accessibili gratuitamente online le prime preziose collezioni di specie, i manoscritti e la corrispondenza del grande naturalista svedese.
E' stata completata la prima parte del programma di digitalizzazione delle opere e delle collezioni di Linneo. Sono dunque finalmente disponibili e accessibili gratuitamente online le prime preziose collezioni di specie, i manoscritti e la corrispondenza del grande naturalista svedese.
Il solo erbario, conservato alla Linnean Society of London, costituisce la più importante collezione singola di specie vegetali, oltre che la più grande per numero di esemplari presenti. Infatti, contiene circa 14.300 individui, molti dei quali antecedenti al 1753, anno di pubblicazione del Species Plantarum. Più di 4.000 di queste costituiscono gli esemplare tipo usati per la nomenclatura linneana ed includono specie provenienti da Asia, Europa e America, collezionate durante un periodo di intensa esplorazione di nuove regioni.
Il sistema prevede anche l'utilizzo di un nuovo strumento, FSI (Flash-based Single Source Image) Viewer, che rende possibile l'ingrandimento anche di piccolissimi dettagli di ciascun esemplare della collezione. L'accesso al sistema è raggiungibile dal sito della Linnean Society, all'indirizzo www.linnean.org, nella sezione Linnean Society Collections Online.
La collezione relativa alla corrispondenza di Linneo contiene circa 4.000 lettere scambiate con più di 600 persone, tra cui figurano alcuni personaggi di spicco del tempo, come Sir Joseph Banks, i fratelli Jussieu, Nikolaus Joseph von Jacquin, Anders Celsius, Daniel Gabriel Fahrenheit e Jean-Jacques Rousseau.
Nel frattempo il lavoro prosegue con la creazione di immagini digitali delle collezioni di insetti, tra cui il primo gruppo, quello dei Lepidotteri, sarà probabilmente già disponibile a fine marzo.
Con l'arrivo di ulteriori finanziamenti, saranno digitalizzate e rese fruibili al pubblico tutte le restanti collezioni, comprese quelle dei pesci e delle conchiglie.
Il presidente della Linnean Society, David Cutler, sostiene che questo progetto di archivio digitale risulterà particolarmente importante in quanto consente l'accesso a queste preziose collezioni a coloro che si occupano di tassonomia e a chi non è in grado di osservarle di persona, in quanto residente in altri paesi.
Francesco Santini e Andrea Romano
E' stata completata la prima parte del programma di digitalizzazione delle opere e delle collezioni di Linneo. Sono dunque finalmente disponibili e accessibili gratuitamente online le prime preziose collezioni di specie, i manoscritti e la corrispondenza del grande naturalista svedese.
Il solo erbario, conservato alla Linnean Society of London, costituisce la più importante collezione singola di specie vegetali, oltre che la più grande per numero di esemplari presenti. Infatti, contiene circa 14.300 individui, molti dei quali antecedenti al 1753, anno di pubblicazione del Species Plantarum. Più di 4.000 di queste costituiscono gli esemplare tipo usati per la nomenclatura linneana ed includono specie provenienti da Asia, Europa e America, collezionate durante un periodo di intensa esplorazione di nuove regioni.
Il sistema prevede anche l'utilizzo di un nuovo strumento, FSI (Flash-based Single Source Image) Viewer, che rende possibile l'ingrandimento anche di piccolissimi dettagli di ciascun esemplare della collezione. L'accesso al sistema è raggiungibile dal sito della Linnean Society, all'indirizzo www.linnean.org, nella sezione Linnean Society Collections Online.
La collezione relativa alla corrispondenza di Linneo contiene circa 4.000 lettere scambiate con più di 600 persone, tra cui figurano alcuni personaggi di spicco del tempo, come Sir Joseph Banks, i fratelli Jussieu, Nikolaus Joseph von Jacquin, Anders Celsius, Daniel Gabriel Fahrenheit e Jean-Jacques Rousseau.
Nel frattempo il lavoro prosegue con la creazione di immagini digitali delle collezioni di insetti, tra cui il primo gruppo, quello dei Lepidotteri, sarà probabilmente già disponibile a fine marzo.
Con l'arrivo di ulteriori finanziamenti, saranno digitalizzate e rese fruibili al pubblico tutte le restanti collezioni, comprese quelle dei pesci e delle conchiglie.
Il presidente della Linnean Society, David Cutler, sostiene che questo progetto di archivio digitale risulterà particolarmente importante in quanto consente l'accesso a queste preziose collezioni a coloro che si occupano di tassonomia e a chi non è in grado di osservarle di persona, in quanto residente in altri paesi.
Francesco Santini e Andrea Romano
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I microabitanti della Micronesia
Dopo Flores, uomini alti un metro anche in Micronesia: si tratterebbe di popolazioni di Homo sapiens che hanno subito una forte riduzione di taglia, con conseguenti modificazioni di tratti morfologici, e non di una specie a parte.
Poche migliaia di anni fa, l'isola micronesiana di Palau era abitata da individui dalla statura di un metro. Questo è l'incredibile risultato dell'analisi sulle ossa fossili, risalenti ad un periodo compreso tra circa 950 e 3000 anni fa, rinvenute in due diverse località dell'isola da un gruppo di ricercatori della University of the Witwatersrand, della Rutgers University e della Duke University. Un altro caso Hobbit? Da quanto si legge nell'articolo pubblicato sulla rivista PLoS ONE, sembrerebbe proprio di no. Dalla descrizione dei resti, emerge infatti come questi piccoli uomini presentino alcune caratteristiche morfologiche delle ossa tipiche del solo Homo sapiens e non rintracciabili in nessuna altra specie del genere Homo. Sembrerebbero dunque individui derivanti da popolazioni umane migrate che successivamente hanno visto ridurre la propria taglia corporea in seguito a fenomeni di nanismo insulare.
La vicenda non è tuttavia così semplice. Infatti, non tutti i tratti analizzati si ritrovano nella nostra specie, ma sono evidenti anche somiglianze, oltre alla bassa statura, con l'ormai famoso Hobbit, la cui collocazione tassonomica è tutt'ora oggetto di acceso dibattito, e alcune caratteristiche tipiche di specie antiche del genere Homo. L'interrogativo che questa scoperta pone è dunque il medesimo della vicenda legata all'Homo floresiensis: si tratta di una specie a parte, forse proprio derivata da antenati di uomini di Flores migrati, oppure di Homo sapiens soggetti ad un processo di riduzione di taglia?
A questa domanda gli autori dell'articolo non rispondono azzardando l'esistenza di una diretta relazione di parentela tra gli uomini di Palau e quelli di Flores. Sostengono infatti che i tratti morfologici di questi nuovi fossili simili a quelli di specie ancestrali del genere Homo, come la piccola dimensione del cervello e la quasi assenza di mento, e quelli tipici dell'Homo floresiensis, come un'accentuata macrodonzia, possano essere il sottoprodotto di una riduzione della statura di Homo sapiens, in seguito a fenomeni di nanismo insulare, e non si sarebbero dunque evoluti in una linea filetica parallela alla nostra.
Questa nuova ricerca, pur non escludendo definitivamente lo status di specie a parte dell'Hobbit, supporta l'ipotesi che gli uomini di Flores abbiano costituito una popolazione di Homo sapiens adattata alla vita insulare, senza chiamare in causa anormalità congenite, che si è modificata per le forti pressioni selettive imposte dall'ambiente.
L'articolo "Small-Bodied Humans from Palau, Micronesia" è liberamente accessibile online.
Andrea Romano
Poche migliaia di anni fa, l'isola micronesiana di Palau era abitata da individui dalla statura di un metro. Questo è l'incredibile risultato dell'analisi sulle ossa fossili, risalenti ad un periodo compreso tra circa 950 e 3000 anni fa, rinvenute in due diverse località dell'isola da un gruppo di ricercatori della University of the Witwatersrand, della Rutgers University e della Duke University. Un altro caso Hobbit? Da quanto si legge nell'articolo pubblicato sulla rivista PLoS ONE, sembrerebbe proprio di no. Dalla descrizione dei resti, emerge infatti come questi piccoli uomini presentino alcune caratteristiche morfologiche delle ossa tipiche del solo Homo sapiens e non rintracciabili in nessuna altra specie del genere Homo. Sembrerebbero dunque individui derivanti da popolazioni umane migrate che successivamente hanno visto ridurre la propria taglia corporea in seguito a fenomeni di nanismo insulare.
La vicenda non è tuttavia così semplice. Infatti, non tutti i tratti analizzati si ritrovano nella nostra specie, ma sono evidenti anche somiglianze, oltre alla bassa statura, con l'ormai famoso Hobbit, la cui collocazione tassonomica è tutt'ora oggetto di acceso dibattito, e alcune caratteristiche tipiche di specie antiche del genere Homo. L'interrogativo che questa scoperta pone è dunque il medesimo della vicenda legata all'Homo floresiensis: si tratta di una specie a parte, forse proprio derivata da antenati di uomini di Flores migrati, oppure di Homo sapiens soggetti ad un processo di riduzione di taglia?
A questa domanda gli autori dell'articolo non rispondono azzardando l'esistenza di una diretta relazione di parentela tra gli uomini di Palau e quelli di Flores. Sostengono infatti che i tratti morfologici di questi nuovi fossili simili a quelli di specie ancestrali del genere Homo, come la piccola dimensione del cervello e la quasi assenza di mento, e quelli tipici dell'Homo floresiensis, come un'accentuata macrodonzia, possano essere il sottoprodotto di una riduzione della statura di Homo sapiens, in seguito a fenomeni di nanismo insulare, e non si sarebbero dunque evoluti in una linea filetica parallela alla nostra.
Questa nuova ricerca, pur non escludendo definitivamente lo status di specie a parte dell'Hobbit, supporta l'ipotesi che gli uomini di Flores abbiano costituito una popolazione di Homo sapiens adattata alla vita insulare, senza chiamare in causa anormalità congenite, che si è modificata per le forti pressioni selettive imposte dall'ambiente.
L'articolo "Small-Bodied Humans from Palau, Micronesia" è liberamente accessibile online.
Andrea Romano
Discutere l'evoluzione biologica
E' uscito l'ultimo libro di Vittorio Parisi, intotolato "Discutere l’evoluzione biologica"
Pubblicazioni del Museo di Storia Naturale di Parma 13, 1-132, 2008
Dalla prefazione di Maria Grazia Mezzadri, Direttore scientifico del Museo di Storia naturale di Parma:
Gli incontri proposti dal Museo sono stati tenuti da Vittorio Parisi il 13 e 14 marzo 2006 in due conferenze, “Nascita e sviluppo dell’idea di evoluzione biologica” e “La sfida dell’evoluzionismo oggi”, che hanno illustrato l’attuale stato delle teorie evoluzionistiche e il 16 marzo in una conferenza itinerante nelle sale del Museo, avente come tema “Leggere nel corpo umano la sua storia evolutiva” durante la quale il pubblico ha potuto constatare la realtà dell’evoluzione biologica e valutare l’attendibilità delle teorie proposte per spiegarne i meccanismi. In ciò aiutato anche da pannelli esposti lungo il percorso […] illustranti alcuni particolari temi utili per rendere meglio comprensibile la “lettura” del corpo umano e della sua biologia.
In questo volume vengono riportati i testi delle conferenze di V. Parisi aggiornati allo stato attuale del dibattito e opportunamente integrati. Essi non vogliono certo costituire un riesame esaustivo del tema dell’evoluzione biologica, ma solo fornire un percorso che consenta al lettore non specializzato di districarsi tra le molte “offerte” culturali, che spesso celano obiettivi che con la scienza di base nulla hanno che fare.
Con la stessa finalità viene riportata anche la scaletta di un Seminario di Facoltà sull’evoluzione, utile per chi voglia approfondire il tema, e viene inserito un contributo al dibattito sulla divulgazione evoluzionistica, basato sulla ben nota questione della interpretazione di Lamarck e di Darwin del processo di adattamento della Giraffa.
Il testo è arricchito da alcune poesie di Giancarlo Baroni, poeta parmigiano che interpreta in modo suggestivo la Natura aprendo la nostra mente ad una visione che trascende i limiti disciplinari.
Indice:
- Presentazione - Nascita ed evoluzione dell’idea di evoluzione biologica - La sfida dell’evoluzionismo oggi - Leggere nel corpo umano la storia evolutiva - Seminario di Facoltà sulla Evoluzione, 6 aprile 2005 - La Giraffa e la divulgazione evoluzionistica - Metamorfosi - Che cosa leggere per approfondire il tema della evoluzione biologica
Pubblicazioni del Museo di Storia Naturale di Parma 13, 1-132, 2008
Dalla prefazione di Maria Grazia Mezzadri, Direttore scientifico del Museo di Storia naturale di Parma:
Gli incontri proposti dal Museo sono stati tenuti da Vittorio Parisi il 13 e 14 marzo 2006 in due conferenze, “Nascita e sviluppo dell’idea di evoluzione biologica” e “La sfida dell’evoluzionismo oggi”, che hanno illustrato l’attuale stato delle teorie evoluzionistiche e il 16 marzo in una conferenza itinerante nelle sale del Museo, avente come tema “Leggere nel corpo umano la sua storia evolutiva” durante la quale il pubblico ha potuto constatare la realtà dell’evoluzione biologica e valutare l’attendibilità delle teorie proposte per spiegarne i meccanismi. In ciò aiutato anche da pannelli esposti lungo il percorso […] illustranti alcuni particolari temi utili per rendere meglio comprensibile la “lettura” del corpo umano e della sua biologia.
In questo volume vengono riportati i testi delle conferenze di V. Parisi aggiornati allo stato attuale del dibattito e opportunamente integrati. Essi non vogliono certo costituire un riesame esaustivo del tema dell’evoluzione biologica, ma solo fornire un percorso che consenta al lettore non specializzato di districarsi tra le molte “offerte” culturali, che spesso celano obiettivi che con la scienza di base nulla hanno che fare.
Con la stessa finalità viene riportata anche la scaletta di un Seminario di Facoltà sull’evoluzione, utile per chi voglia approfondire il tema, e viene inserito un contributo al dibattito sulla divulgazione evoluzionistica, basato sulla ben nota questione della interpretazione di Lamarck e di Darwin del processo di adattamento della Giraffa.
Il testo è arricchito da alcune poesie di Giancarlo Baroni, poeta parmigiano che interpreta in modo suggestivo la Natura aprendo la nostra mente ad una visione che trascende i limiti disciplinari.
Indice:
- Presentazione - Nascita ed evoluzione dell’idea di evoluzione biologica - La sfida dell’evoluzionismo oggi - Leggere nel corpo umano la storia evolutiva - Seminario di Facoltà sulla Evoluzione, 6 aprile 2005 - La Giraffa e la divulgazione evoluzionistica - Metamorfosi - Che cosa leggere per approfondire il tema della evoluzione biologica
La falsa dicotomia tra evoluzione ed intelligent design ed altre divertenti alternative
La rivista Evolutionary Biology pubblicherà nel prossimo numero un breve pamphlet sulla (falsa) dicotomia tra evoluzione e intelligent design.
Molto spesso la teoria dell'evoluzione e l'idea dell'intelligent design sono state messe in contrapposizione come fossero teorie alternative per spiegare l'evoluzione dei viventi. In realtà, l'idea dell'intelligent design non rappresenta né una teoria scientifica né una reale innovazione rispetto al creazionismo.
Un'analisi del rapporto tra evoluzione ed intelligent design è in pubblicazione sulla rivista Evolutionary Biology in un breve saggio di Benedikt Hallgrìmsson dal titolo "The False Dichotomy of Evolution versus Intelligent Design".
In merito a proposte alternative, vale la pena ricordare la divertentissima provocazione di Bobby Henderson che nella primavera del 2005, per protestare contro il tentativo di equiparare evoluzione e creazionismo, mandò alla Commissione Scolastica Statale del Kansas una lettera ufficiale, in cui si chiedeva che all'insegnamento del creazionismo ed evoluzionismo venisse aggiunta una terza teoria, definita pastafarianesimo (derivante dall'argomento della Teiera di Russell sulla non esistenza di Dio), secondo cui l'universo sarebbe stato creato da un Mostro di Spaghetti Volante che ha creato tutto ciò che vediamo e percepiamo intorno a noi. Come sostenne Bobby Henderson, inoltre, la mole di prove scientifiche tesa a dimostrare i processi evolutivi non sarebbe altro che una mera coincidenza posta in essere da questo Pastoso Signore.
Il libro guida del pastafariano è stato recentemente pubblicato anche in italiano da Mondadori con il titolo "Il libro sacro del Prodigioso Spaghetto Volante". Come recita il testo di descrizione di questo libro "Finalmente la teoria del Disegno Intelligente ha trovato pane per i suoi denti, e non si tratta di robetta basata su scimmie, scimmioni o Giardini Pubblici dell'Eden. In queste pagine Bobby Henderson mette in chiaro una serie di fatti veri e veritieri, ridicolizzando giustamente miti ingannevoli quali l'evoluzione: solo e solamente una teoria; la scienza: un mucchio di teorie; e la tesi secondo cui discenderemmo realmente dalle scimmie". Da non perdere!
Mauro Mandrioli
Hallgrìmsson B (2008) The False Dichotomy of Evolution versus Intelligent Design. Evolutionary Biology, doi 10.1007/s11692-007-9014-3.
Henderson B (2008) Il libro sacro del Prodigioso Spaghetto Volante. Mondadori.
Molto spesso la teoria dell'evoluzione e l'idea dell'intelligent design sono state messe in contrapposizione come fossero teorie alternative per spiegare l'evoluzione dei viventi. In realtà, l'idea dell'intelligent design non rappresenta né una teoria scientifica né una reale innovazione rispetto al creazionismo.
Un'analisi del rapporto tra evoluzione ed intelligent design è in pubblicazione sulla rivista Evolutionary Biology in un breve saggio di Benedikt Hallgrìmsson dal titolo "The False Dichotomy of Evolution versus Intelligent Design".
In merito a proposte alternative, vale la pena ricordare la divertentissima provocazione di Bobby Henderson che nella primavera del 2005, per protestare contro il tentativo di equiparare evoluzione e creazionismo, mandò alla Commissione Scolastica Statale del Kansas una lettera ufficiale, in cui si chiedeva che all'insegnamento del creazionismo ed evoluzionismo venisse aggiunta una terza teoria, definita pastafarianesimo (derivante dall'argomento della Teiera di Russell sulla non esistenza di Dio), secondo cui l'universo sarebbe stato creato da un Mostro di Spaghetti Volante che ha creato tutto ciò che vediamo e percepiamo intorno a noi. Come sostenne Bobby Henderson, inoltre, la mole di prove scientifiche tesa a dimostrare i processi evolutivi non sarebbe altro che una mera coincidenza posta in essere da questo Pastoso Signore.
Il libro guida del pastafariano è stato recentemente pubblicato anche in italiano da Mondadori con il titolo "Il libro sacro del Prodigioso Spaghetto Volante". Come recita il testo di descrizione di questo libro "Finalmente la teoria del Disegno Intelligente ha trovato pane per i suoi denti, e non si tratta di robetta basata su scimmie, scimmioni o Giardini Pubblici dell'Eden. In queste pagine Bobby Henderson mette in chiaro una serie di fatti veri e veritieri, ridicolizzando giustamente miti ingannevoli quali l'evoluzione: solo e solamente una teoria; la scienza: un mucchio di teorie; e la tesi secondo cui discenderemmo realmente dalle scimmie". Da non perdere!
Mauro Mandrioli
Hallgrìmsson B (2008) The False Dichotomy of Evolution versus Intelligent Design. Evolutionary Biology, doi 10.1007/s11692-007-9014-3.
Henderson B (2008) Il libro sacro del Prodigioso Spaghetto Volante. Mondadori.
Evoluzione e conservazione: ovvero quando conoscere l'evoluzione permette di capire come pianificare la conservazione di una specie
La conservazione dei viventi è indubbiamente un argomento di grandissima attualità e la conoscenza dei meccanismi con cui le specie evolvono può permettere la definizione di strategie di conservazione sempre più efficaci.
Da poche settimane il panorama delle riviste che affrontano tematiche legate alla biologia evoluzionistica si è arricchito di una nuova interessante proposta editoriale rappresentata da Evolutionary Applications, che pubblica articoli in cui i concetti propri della biologia evoluzionistica vengono utilizzati per risolvere problemi biologici di rilevanza in ambito sociale, economico, zootecnico, agrario e medico.
In particolare, il primo fascicolo di Evolutionary Applications presenta un articolo di Robert Latta (Department of Biology, Dalhousie University, Canada) in cui si mostra come la conoscenza dei processi evolutivi sia fondamentale per definire adeguate politiche di conservazione dei viventi.
Al momento, la maggior parte dei progetti di conservazione si avvale di test genetici per capire i livelli di variabilità genetica di popolazioni e per definire il modo in cui intervenire per conservarle, riducendo il rischio di estinzione. Secondo quanto proposto da Robert Latta si potrebbero migliorare le strategie di conservazione rivalutando l’importanza dei testi genetici utilizzati in genetica della conservazione. In particolare, vi sarebbe la tendenza a studiare la variabilità genetica come fenomeno a sé trascurando i processi evolutivi di cui le popolazioni studiate sono oggetto. Questo non significa tuttavia che i test genetici non siano utili ma che i marcatori genetici sono insufficienti da soli per definire adeguate strategie di conservazione di una specie, poiché processi diversi possono essere all’origine del quadro genetico osservato.
Le strategie di conservazione dovrebbero quindi essere integrate con modelli derivati da progetti sperimentali e da test di evoluzione, realizzati sul campo in un contesto adattativo prefissato dagli operatori. Questo permetterebbe di sviluppare un modello probabilistico di gestione delle specie a rischio che tenga conto delle diverse situazioni possibili che la popolazione/specie oggetto del progetto di conservazione potrebbero trovarsi a affrontare.
Mauro Mandrioli
Latta RG (2008) Conservation genetics as applied evolution: from genetic pattern to evolutionary process. Evolutionary Applications 1: 84-94.
Da poche settimane il panorama delle riviste che affrontano tematiche legate alla biologia evoluzionistica si è arricchito di una nuova interessante proposta editoriale rappresentata da Evolutionary Applications, che pubblica articoli in cui i concetti propri della biologia evoluzionistica vengono utilizzati per risolvere problemi biologici di rilevanza in ambito sociale, economico, zootecnico, agrario e medico.
In particolare, il primo fascicolo di Evolutionary Applications presenta un articolo di Robert Latta (Department of Biology, Dalhousie University, Canada) in cui si mostra come la conoscenza dei processi evolutivi sia fondamentale per definire adeguate politiche di conservazione dei viventi.
Al momento, la maggior parte dei progetti di conservazione si avvale di test genetici per capire i livelli di variabilità genetica di popolazioni e per definire il modo in cui intervenire per conservarle, riducendo il rischio di estinzione. Secondo quanto proposto da Robert Latta si potrebbero migliorare le strategie di conservazione rivalutando l’importanza dei testi genetici utilizzati in genetica della conservazione. In particolare, vi sarebbe la tendenza a studiare la variabilità genetica come fenomeno a sé trascurando i processi evolutivi di cui le popolazioni studiate sono oggetto. Questo non significa tuttavia che i test genetici non siano utili ma che i marcatori genetici sono insufficienti da soli per definire adeguate strategie di conservazione di una specie, poiché processi diversi possono essere all’origine del quadro genetico osservato.
Le strategie di conservazione dovrebbero quindi essere integrate con modelli derivati da progetti sperimentali e da test di evoluzione, realizzati sul campo in un contesto adattativo prefissato dagli operatori. Questo permetterebbe di sviluppare un modello probabilistico di gestione delle specie a rischio che tenga conto delle diverse situazioni possibili che la popolazione/specie oggetto del progetto di conservazione potrebbero trovarsi a affrontare.
Mauro Mandrioli
Latta RG (2008) Conservation genetics as applied evolution: from genetic pattern to evolutionary process. Evolutionary Applications 1: 84-94.
Mosè e King Kong discutono di Darwin
Tra la "Preghiera Darwiniana" di Michele Luzzatto, i Darwin Day e l'insegnamento della teoria dell'evoluzione nelle scuole, ecco un breve articolo di Enrico Alleva e Daniela Santucci pubblicato su l'Unità il giorno 11 marzo e consultabile da qui.
Buona lettura
Buona lettura
Devonian Blues
L'evoluzione dai sarcopterigi ai mammiferi in una canzone: ecco il Devonian Blues di Ray Troll.
Al di là di ogni ragionevole dubbio
E' in libreria il nuovo libro di Sean B. Carroll:
Al di là di ogni ragionevole dubbio
Codice edizioni, 2008
Dal comunicato stampa riportiamo:
Il DNA è il protagonista assoluto di Al di là di ogni ragionevole dubbio di Sean B. Carroll definito dal filosofo della scienza Michael Ruse “l’unico scienziato vivente con cui Charles Darwin potrebbe trascorrere una serata”.Nel libro, in libreria in questi giorni, Carroll descrive come la decifrazione del corredo genetico di numerosi animali, incluso l'uomo, e la loro analisi comparata, abbiano confermato senza ombra di dubbio le intuizioni che portarono Darwin a elaborare la sua teoria sull'evoluzione della vita da un unico discendente comune. Da questo punto di vista il DNA è una cronaca vivente dell’evoluzione, qualcosa di simile a un libro dove è scritta la nostra storia, di individui e di specie, e in cui sono contenuti gli indizi che rivelano la nostra diversità e come si è evoluta. Sono i cambiamenti del corredo genetico che hanno permesso alle meravigliose creature che abitano il nostro pianeta di adattarsi ad ambienti mutevoli ed instabili, dalle acque gelide dell’Antartico alla lussureggiante foresta pluviale. Il DNA diventa anche la prova scientifica definitiva in grado di confutare gli argomenti e la retorica di chi ancora si ostina a negare la scienza dell'evoluzione.
dalla prefazione riportiamo:
[...] Proprio come la sequenza del DNA di ciascun individuo è unica, anche la sequenza del DNA di ciascuna specie è unica. Ogni cambiamento evolutivo fra specie, che si tratti dell’aspetto fisico o del metabolismo digestivo, è dovuto a cambiamenti nel DNA e quindi rimane registrato nella sua sequenza. Lo stesso vale per la «paternità» delle specie. Il DNA contiene, quindi, la prova forense definitiva e inconfutabile dell’evoluzione. Questo fatto costituisce un’interessante ironia. Giurie e giudici si basano sulla prova del DNA per determinare la libertà o la detenzione, la vita o la morte di migliaia di persone. E apparentemente la totalità dei cittadini americani è a favore di questa innovazione. Eppure nell’opinione pubblica circa la metà o più dei cittadini americani dubita ancora o nega recisamente la realtà dell’evoluzione biologica. È evidente che ci sono più familiari le applicazioni del DNA che le sue implicazioni.
[…] il mio obiettivo in questo libro è di presentare un corpo di nuovi dati a proposito dell’evoluzione basati sul DNA. Negli ultimi anni, la biologia ha avuto un accesso senza precedenti a una grande quantità di dati sul DNA di ogni tipo di organismo, compreso l’uomo e i nostri parenti più stretti. […] Racconterò la storia di come la nuova scienza della genomica, lo studio comprensivo e soprattutto comparativo del DNA delle specie, stia profondamente ampliando la nostra conoscenza dell’evoluzione della vita. La genomica ci permette di penetrare in profondità il processo evolutivo. Ben oltre un secolo dopo Darwin, la selezione naturale era osservabile solo a livello dell’intero organismo, come un fringuello o una falena, sotto forma di differenze nella loro sopravvivenza o capacità riproduttiva. Ora, possiamo vedere come il più adatto viene costruito. Il DNA contiene un tipo di informazione completamente nuovo e diverso rispetto a quello che Darwin avrebbe potuto immaginare o sperare, ma che conferma in modo decisivo la sua idea di evoluzione. Ora siamo in grado di identificare i cambiamenti specifici nel DNA che hanno permesso alle specie di adattarsi ai mutamenti ambientali e di evolvere nuovi stili di vita.
[…] La sequenza del DNA ci rivela anche che l’evoluzione può ripetersi, e che lo fa spesso. Adattamenti simili o identici si sono verificati attraverso lo stesso meccanismo in specie diverse come farfalle ed esseri umani. Questo costituisce un’ottima prova che, di fronte alle stesse sfide o opportunità, la stessa soluzione può essere scelta in tempi e luoghi completamente diversi nella storia della vita. Questa ripetitività contraddice l’idea che se riavvolgessimo il film della storia della vita e lo facessimo partire di nuovo, il risultato sarebbe del tutto diverso. I dati basati sul DNA stanno anche rivoluzionando lo studio e la comprensione delle origini dell’uomo e degli albori della civiltà. Sebbene il sequenziamento del genoma umano sia praticamente completo, è l’interpretazione dei geni dei genomi degli altri primati e mammiferi che ci permette di interpretare il significato della sequenza umana. I nostri geni contengono indizi rivelatori sulla nostra diversità e su come si è evoluta. Molti geni portano le cicatrici della selezione naturale,della battaglia che i nostri antenati hanno combattuto con le malattie che hanno afflitto la civiltà umana per millenni. [...]
Al di là di ogni ragionevole dubbio
Codice edizioni, 2008
Dal comunicato stampa riportiamo:
Il DNA è il protagonista assoluto di Al di là di ogni ragionevole dubbio di Sean B. Carroll definito dal filosofo della scienza Michael Ruse “l’unico scienziato vivente con cui Charles Darwin potrebbe trascorrere una serata”.Nel libro, in libreria in questi giorni, Carroll descrive come la decifrazione del corredo genetico di numerosi animali, incluso l'uomo, e la loro analisi comparata, abbiano confermato senza ombra di dubbio le intuizioni che portarono Darwin a elaborare la sua teoria sull'evoluzione della vita da un unico discendente comune. Da questo punto di vista il DNA è una cronaca vivente dell’evoluzione, qualcosa di simile a un libro dove è scritta la nostra storia, di individui e di specie, e in cui sono contenuti gli indizi che rivelano la nostra diversità e come si è evoluta. Sono i cambiamenti del corredo genetico che hanno permesso alle meravigliose creature che abitano il nostro pianeta di adattarsi ad ambienti mutevoli ed instabili, dalle acque gelide dell’Antartico alla lussureggiante foresta pluviale. Il DNA diventa anche la prova scientifica definitiva in grado di confutare gli argomenti e la retorica di chi ancora si ostina a negare la scienza dell'evoluzione.
dalla prefazione riportiamo:
[...] Proprio come la sequenza del DNA di ciascun individuo è unica, anche la sequenza del DNA di ciascuna specie è unica. Ogni cambiamento evolutivo fra specie, che si tratti dell’aspetto fisico o del metabolismo digestivo, è dovuto a cambiamenti nel DNA e quindi rimane registrato nella sua sequenza. Lo stesso vale per la «paternità» delle specie. Il DNA contiene, quindi, la prova forense definitiva e inconfutabile dell’evoluzione. Questo fatto costituisce un’interessante ironia. Giurie e giudici si basano sulla prova del DNA per determinare la libertà o la detenzione, la vita o la morte di migliaia di persone. E apparentemente la totalità dei cittadini americani è a favore di questa innovazione. Eppure nell’opinione pubblica circa la metà o più dei cittadini americani dubita ancora o nega recisamente la realtà dell’evoluzione biologica. È evidente che ci sono più familiari le applicazioni del DNA che le sue implicazioni.
[…] il mio obiettivo in questo libro è di presentare un corpo di nuovi dati a proposito dell’evoluzione basati sul DNA. Negli ultimi anni, la biologia ha avuto un accesso senza precedenti a una grande quantità di dati sul DNA di ogni tipo di organismo, compreso l’uomo e i nostri parenti più stretti. […] Racconterò la storia di come la nuova scienza della genomica, lo studio comprensivo e soprattutto comparativo del DNA delle specie, stia profondamente ampliando la nostra conoscenza dell’evoluzione della vita. La genomica ci permette di penetrare in profondità il processo evolutivo. Ben oltre un secolo dopo Darwin, la selezione naturale era osservabile solo a livello dell’intero organismo, come un fringuello o una falena, sotto forma di differenze nella loro sopravvivenza o capacità riproduttiva. Ora, possiamo vedere come il più adatto viene costruito. Il DNA contiene un tipo di informazione completamente nuovo e diverso rispetto a quello che Darwin avrebbe potuto immaginare o sperare, ma che conferma in modo decisivo la sua idea di evoluzione. Ora siamo in grado di identificare i cambiamenti specifici nel DNA che hanno permesso alle specie di adattarsi ai mutamenti ambientali e di evolvere nuovi stili di vita.
[…] La sequenza del DNA ci rivela anche che l’evoluzione può ripetersi, e che lo fa spesso. Adattamenti simili o identici si sono verificati attraverso lo stesso meccanismo in specie diverse come farfalle ed esseri umani. Questo costituisce un’ottima prova che, di fronte alle stesse sfide o opportunità, la stessa soluzione può essere scelta in tempi e luoghi completamente diversi nella storia della vita. Questa ripetitività contraddice l’idea che se riavvolgessimo il film della storia della vita e lo facessimo partire di nuovo, il risultato sarebbe del tutto diverso. I dati basati sul DNA stanno anche rivoluzionando lo studio e la comprensione delle origini dell’uomo e degli albori della civiltà. Sebbene il sequenziamento del genoma umano sia praticamente completo, è l’interpretazione dei geni dei genomi degli altri primati e mammiferi che ci permette di interpretare il significato della sequenza umana. I nostri geni contengono indizi rivelatori sulla nostra diversità e su come si è evoluta. Molti geni portano le cicatrici della selezione naturale,della battaglia che i nostri antenati hanno combattuto con le malattie che hanno afflitto la civiltà umana per millenni. [...]
Quando anche le dimensioni contano!
Quanto incide il fattore dimensione sull'evoluzione degli esseri viventi ed in che modo? Dai batteri alle balene, passando per gli uccelli, per cercare una risposta.
Il fascicolo di marzo 2008 della rivista Journal of Evolutionary Biology pubblica un interessante articolo dal titolo Body size evolution in Mesozoic birds, i cui autori hanno studiato la variazione delle dimensioni corporee degli uccelli, andando a verificare quali costrizioni fossero presenti (e se ve ne fossero) per limitarne l'accrescimento.
L'ipotesi da cui David W.E. Hone (Institute of Vertebrate Palaeontology and Palaeoanthropology, Xizhimenwai Dajie, Cina) e colleghi sono partiti è che la necessità di mantenere la capacità di volare potrebbe aver costituito un importante limite (vincolo) alla crescita delle dimensioni degli uccelli nella prima fase della loro evoluzione, rendendo in questo gruppo non applicabile la regola di Cope, secondo cui vi sarebbe una tendenza, durante l'evoluzione, ad aumentare le dimensioni corporee all'interno di ogni clade.
Contrariamente a questa ipotesi, Hone e colleghi hanno invece dimostrato che si è assistito nella maggior parte degli uccelli ad un incremento delle dimensioni corporee dal Giurassico al Cretaceo, come dimostrato dai cladi dei Pygostylia e degli Ornithothoraces (che comprende uccelli moderni, ma anche gruppi estinti). Non tutti gli uccelli hanno, tuttavia, seguito questa tendenza come dimostrato nei Ornithuromorpha (che comprende taxa tuttora presenti) in cui é stata osservata una tendenza alla diminuzione della massa corporea.
Questo aspetto è molto interessante da un punto di vista evolutivo, poiché nel passaggio tra Cretaceo e Paleogene la selezione naturale sembra avere favorito uccelli con dimensioni ridotte, portando ad una ampia radiazione del clade Ornithuromorpha (dato da specie che avevano piccole dimensioni) a discapito degli altri tre cladi (costituiti da specie le cui dimensioni erano andate progressivamente aumentando nel tempo).
Le dimensioni corporee sono quindi un importante, e spesso poco considerato, fattore di evoluzione in grado di influenzare anche altri aspetti, essendo le dimensioni correlate alla morfologia, alla fisiologia e, talvolta anche alla complessità, di ciascun vivente. Per chi fosse interessato ad approfondire questo aspetto, una lettura stimolante può indubbiamente essere l'ultimo libro (in senso cronologico!) di John Tyler Bonner intitolato "Dai batteri alle balene" e pubblicato da Raffaello Cortina Editore (2007).
"Dai batteri alle balene" (il cui titolo in inglese Why size matters rendeva più immediato capire ciò a cui l'autore pensava scrivendo il libro) mostra in modo sintetico, ma efficace, come le dimensioni corporee abbiano influenzato diversi fattori tra cui morfologia, fisiologia, forza, complessità, velocità, numerosità e longevità dei viventi. Come sottolinea Bonner quindi, le dimensioni di un organismo sono soggette ad una continua sorveglianza selettiva nel corso dell'evoluzione.
Tra i diversi fattori influenzati dalle dimensioni corporee vi è anche la complessità di un organismo. All'aumentare delle dimensioni corporee (generalmente ottenuto mediante un incremento del numero di cellule che costituiscono un organismo) può infatti seguire un aumento della complessità generale a seguito di una suddivisione dei compiti tra tipi cellulari diversi ovvero attraverso il differenziamento di tipi cellulari con morfologia e funzioni distinte.
Come recentemente sottolineato da Martin Willensdorfer (nell'articolo intitolato "Organism size promotes the evolution of specialized cells in multicellular digital organisms" e pubblicato su Journal of Evolutionary Biology) l'aumento delle dimensioni corporee è un fattore che ha favorito l'evoluzione di tipi cellulari specializzati, che sono andati progressivamente a sostituire cellule multifunzionali. L'evoluzione avrebbe quindi sfruttato la multicellularità per suddividere i compiti tra le cellule presenti favorendone il differenziamento.
Mauro Mandrioli
Hone D. W. E. , Dyke G. J. , Haden M. , Benton M. J. (2008). Body size evolution in Mesozoic birds. Journal of Evolutionary Biology 21: 618–624.
Willensdorfer M. (2008). Organism size promotes the evolution of specialized cells in multicellular digital organisms. Journal of Evolutionary Biology 21: 104-110.
Il fascicolo di marzo 2008 della rivista Journal of Evolutionary Biology pubblica un interessante articolo dal titolo Body size evolution in Mesozoic birds, i cui autori hanno studiato la variazione delle dimensioni corporee degli uccelli, andando a verificare quali costrizioni fossero presenti (e se ve ne fossero) per limitarne l'accrescimento.
L'ipotesi da cui David W.E. Hone (Institute of Vertebrate Palaeontology and Palaeoanthropology, Xizhimenwai Dajie, Cina) e colleghi sono partiti è che la necessità di mantenere la capacità di volare potrebbe aver costituito un importante limite (vincolo) alla crescita delle dimensioni degli uccelli nella prima fase della loro evoluzione, rendendo in questo gruppo non applicabile la regola di Cope, secondo cui vi sarebbe una tendenza, durante l'evoluzione, ad aumentare le dimensioni corporee all'interno di ogni clade.
Contrariamente a questa ipotesi, Hone e colleghi hanno invece dimostrato che si è assistito nella maggior parte degli uccelli ad un incremento delle dimensioni corporee dal Giurassico al Cretaceo, come dimostrato dai cladi dei Pygostylia e degli Ornithothoraces (che comprende uccelli moderni, ma anche gruppi estinti). Non tutti gli uccelli hanno, tuttavia, seguito questa tendenza come dimostrato nei Ornithuromorpha (che comprende taxa tuttora presenti) in cui é stata osservata una tendenza alla diminuzione della massa corporea.
Questo aspetto è molto interessante da un punto di vista evolutivo, poiché nel passaggio tra Cretaceo e Paleogene la selezione naturale sembra avere favorito uccelli con dimensioni ridotte, portando ad una ampia radiazione del clade Ornithuromorpha (dato da specie che avevano piccole dimensioni) a discapito degli altri tre cladi (costituiti da specie le cui dimensioni erano andate progressivamente aumentando nel tempo).
Le dimensioni corporee sono quindi un importante, e spesso poco considerato, fattore di evoluzione in grado di influenzare anche altri aspetti, essendo le dimensioni correlate alla morfologia, alla fisiologia e, talvolta anche alla complessità, di ciascun vivente. Per chi fosse interessato ad approfondire questo aspetto, una lettura stimolante può indubbiamente essere l'ultimo libro (in senso cronologico!) di John Tyler Bonner intitolato "Dai batteri alle balene" e pubblicato da Raffaello Cortina Editore (2007).
"Dai batteri alle balene" (il cui titolo in inglese Why size matters rendeva più immediato capire ciò a cui l'autore pensava scrivendo il libro) mostra in modo sintetico, ma efficace, come le dimensioni corporee abbiano influenzato diversi fattori tra cui morfologia, fisiologia, forza, complessità, velocità, numerosità e longevità dei viventi. Come sottolinea Bonner quindi, le dimensioni di un organismo sono soggette ad una continua sorveglianza selettiva nel corso dell'evoluzione.
Tra i diversi fattori influenzati dalle dimensioni corporee vi è anche la complessità di un organismo. All'aumentare delle dimensioni corporee (generalmente ottenuto mediante un incremento del numero di cellule che costituiscono un organismo) può infatti seguire un aumento della complessità generale a seguito di una suddivisione dei compiti tra tipi cellulari diversi ovvero attraverso il differenziamento di tipi cellulari con morfologia e funzioni distinte.
Come recentemente sottolineato da Martin Willensdorfer (nell'articolo intitolato "Organism size promotes the evolution of specialized cells in multicellular digital organisms" e pubblicato su Journal of Evolutionary Biology) l'aumento delle dimensioni corporee è un fattore che ha favorito l'evoluzione di tipi cellulari specializzati, che sono andati progressivamente a sostituire cellule multifunzionali. L'evoluzione avrebbe quindi sfruttato la multicellularità per suddividere i compiti tra le cellule presenti favorendone il differenziamento.
Mauro Mandrioli
Hone D. W. E. , Dyke G. J. , Haden M. , Benton M. J. (2008). Body size evolution in Mesozoic birds. Journal of Evolutionary Biology 21: 618–624.
Willensdorfer M. (2008). Organism size promotes the evolution of specialized cells in multicellular digital organisms. Journal of Evolutionary Biology 21: 104-110.
Disponibili on-line i video delle conferenze del XI Evolutionary Biology Meeting
Sono scaricabili gratuitamente on-line le riproduzioni video delle conferenze tenute dal 18 al 21 settembre 2007 nell'ambito del XI Evolutionary Biology Meeting di Marsiglia.
Tra il 18 ed il 21 settembre 2007 si è tenuto a Marsiglia l'undicesimo Evolutionary Biology Meeting in cui sono state affrontate numerose tematiche, che spaziavano dall'utilizzo della genomica e della post-genomica per comprendere l'evoluzione alla modelizzazione matematica dell'evoluzione, senza trascurare aspetti quali l'origine della vita e l'evoluzione della biodiversità.
E' ora possibile, per chi non avesse avuto la possibilità di partecipare a questo evento, scaricare gratuitamente molte delle conferenze tenute durante il congresso tramite il sito Télé Campus Provence.
Buona visione!!
Mauro Mandrioli
Tra il 18 ed il 21 settembre 2007 si è tenuto a Marsiglia l'undicesimo Evolutionary Biology Meeting in cui sono state affrontate numerose tematiche, che spaziavano dall'utilizzo della genomica e della post-genomica per comprendere l'evoluzione alla modelizzazione matematica dell'evoluzione, senza trascurare aspetti quali l'origine della vita e l'evoluzione della biodiversità.
E' ora possibile, per chi non avesse avuto la possibilità di partecipare a questo evento, scaricare gratuitamente molte delle conferenze tenute durante il congresso tramite il sito Télé Campus Provence.
Buona visione!!
Mauro Mandrioli
La saga dell'Hobbit continua
Una nuova analisi sui resti dell'uomo di Flores confermerebbe il suo status di Homo sapiens piuttosto che di specie a parte. Secondo questa nuova ipotesi l'Hobbit sarebbe affetto da cretinismo endemico e non da microcefalia.
Fin dal giorno della sua scoperta nel 2003, la vicenda dell'Homo floresiensis, conosciuto anche come Hobbit, è stata segnata da continue conferme e smentite riguardo il suo status di specie a parte nel cespuglio evolutivo del genere Homo. La controversia, giocata a colpi di pubblicazioni, coinvolge coloro che ritengono l'autenticità di questa specie, come risultato di un processo di riduzione della taglia corporea a partire da antenati Homo erectus, e chi invece crede che si tratti di un individuo di Homo sapiens affetto da qualche forma patologica che ne ha impedito il corretto sviluppo corporeo. In particolare, una teoria molto accreditata sostiene che l'Hobbit sia un uomo moderno affetto da microcefalia.
Sulle pagine della rivista Proceedings of the Royal Society B: Biological Sciences, viene proposta una suggestiva alternativa a quest'ultima visione. I resti rinvenuti nell'isola indonesiana di Flores non sarebbero appartenuti ad un Homo sapiens che soffriva di microcefalia, bensì di un'altra patologia che tende a ridurre le dimensioni corporee: il cretinismo endemico. Questa malattia è una deficienza irreversibile nello sviluppo del cervello umano, che si accompagna ad alcuni altri tratti distintivi, tra cui nanismo e malformazione delle ossa e delle articolazioni. Il cretinismo endemico si sviluppa in generale nel feto o nella fase immediatamente postnatale a causa di una grave carenza di iodio nell'alimentazione, che a sua volta comporta una insufficienza tiroidea (ipotiroidismo).
Sono proprio alcune caratteristiche tipiche di questa patologia che un gruppo di ricercatori della RMIT University di Melbourne sostiene di aver rinvenuto nel fossile dell'Hobbit, denominato LB1. Oltre alla taglia di circa un metro e alla ridotta capacità cranica, LB1 manifesta la fossa ipofisaria allargata, i premolari inferiori dotati di due radici e la conformazione dell'articolazione del polso che sono in accordo con questa nuova ipotesi.
La morfologia corporea dell'uomo di Flores sarebbe dunque stata causata da una carenza di iodio nell'alimentazione della madre, una Homo sapiens, durante la gravidanza, combinata con altri fattori ambientali che hanno interferito sulla dieta.
Questa ulteriore ipotesi che si aggiunge alle altre avrà messo la parola fine alla tanto intricata quanto affascinante vicenda dell'Hobbit oppure si aggiungeranno nuove e controverse pagine in questa saga interminabile?
L'articolo “Are the small human-like fossils found on Flores human endemic cretins?” è liberamente disponibile online.
Altri articoli di Pikaia sull'argomento:
Il mistero dell'Hobbit, notizia del 01/02/2007
Lo Hobbit rimane solo nella nostra fantasia, notizia del 15/10/2006
Novità dal mondo degli Hobbit (Homo floresiensis), notizia del 25/06/2006
Riflessioni sull'Homo floresiensis, notizia del 05/03/2005
Andrea Romano
Fin dal giorno della sua scoperta nel 2003, la vicenda dell'Homo floresiensis, conosciuto anche come Hobbit, è stata segnata da continue conferme e smentite riguardo il suo status di specie a parte nel cespuglio evolutivo del genere Homo. La controversia, giocata a colpi di pubblicazioni, coinvolge coloro che ritengono l'autenticità di questa specie, come risultato di un processo di riduzione della taglia corporea a partire da antenati Homo erectus, e chi invece crede che si tratti di un individuo di Homo sapiens affetto da qualche forma patologica che ne ha impedito il corretto sviluppo corporeo. In particolare, una teoria molto accreditata sostiene che l'Hobbit sia un uomo moderno affetto da microcefalia.
Sulle pagine della rivista Proceedings of the Royal Society B: Biological Sciences, viene proposta una suggestiva alternativa a quest'ultima visione. I resti rinvenuti nell'isola indonesiana di Flores non sarebbero appartenuti ad un Homo sapiens che soffriva di microcefalia, bensì di un'altra patologia che tende a ridurre le dimensioni corporee: il cretinismo endemico. Questa malattia è una deficienza irreversibile nello sviluppo del cervello umano, che si accompagna ad alcuni altri tratti distintivi, tra cui nanismo e malformazione delle ossa e delle articolazioni. Il cretinismo endemico si sviluppa in generale nel feto o nella fase immediatamente postnatale a causa di una grave carenza di iodio nell'alimentazione, che a sua volta comporta una insufficienza tiroidea (ipotiroidismo).
Sono proprio alcune caratteristiche tipiche di questa patologia che un gruppo di ricercatori della RMIT University di Melbourne sostiene di aver rinvenuto nel fossile dell'Hobbit, denominato LB1. Oltre alla taglia di circa un metro e alla ridotta capacità cranica, LB1 manifesta la fossa ipofisaria allargata, i premolari inferiori dotati di due radici e la conformazione dell'articolazione del polso che sono in accordo con questa nuova ipotesi.
La morfologia corporea dell'uomo di Flores sarebbe dunque stata causata da una carenza di iodio nell'alimentazione della madre, una Homo sapiens, durante la gravidanza, combinata con altri fattori ambientali che hanno interferito sulla dieta.
Questa ulteriore ipotesi che si aggiunge alle altre avrà messo la parola fine alla tanto intricata quanto affascinante vicenda dell'Hobbit oppure si aggiungeranno nuove e controverse pagine in questa saga interminabile?
L'articolo “Are the small human-like fossils found on Flores human endemic cretins?” è liberamente disponibile online.
Altri articoli di Pikaia sull'argomento:
Il mistero dell'Hobbit, notizia del 01/02/2007
Lo Hobbit rimane solo nella nostra fantasia, notizia del 15/10/2006
Novità dal mondo degli Hobbit (Homo floresiensis), notizia del 25/06/2006
Riflessioni sull'Homo floresiensis, notizia del 05/03/2005
Andrea Romano
Origine ed evoluzione del linguaggio
Ecco una breve intervista ad Angelo Tartabini, ospite degli Happy Hours Evoluzionistici presso il Museo di Storia Naturale di Milano, accessibile dal sito di Videoscienza.it.
Il professore, ordinario di Psicologia all'Università di Parma, risponde alle domande sull'evoluzione del linguaggio e sullo studio delle scimmie antropomorfe per comprenderne le origini.
Il professore, ordinario di Psicologia all'Università di Parma, risponde alle domande sull'evoluzione del linguaggio e sullo studio delle scimmie antropomorfe per comprenderne le origini.
Your inner fish
Cosa hanno in comune le strutture dei nostri arti, il nostro sistema nervoso e il singhiozzo? Sono l´eredita dei nostri avi, i pesci!
Studiando l´anatomia dei pesci si può capire perche siamo quello che siamo, con tutti i nostri pregi e difetti, come ora ha pubblicato il paleontologo Neil Shubin, professore dell'Università di Chicago, nel suo libro "Your inner fish".
L´evoluzione adatta strutture già esisenti per nuovi compiti, come le strutture delle pinne dei pesci, in cui, per creare arti di tetrapodi, più che cambiare numero delle ossa é stata modificata la forma e la conformazione di quelle già presenti, riutillizando perfino gli stessi geni che controllavano già l´asimmetria delle pinne. Anche il sistema nervoso non poteva essere reinventato dal niente, per questo spesso i percorsi dei nervi non prendono una via diretta, come probabilmente un "designer" sceglierebbe, ma percorsi snodati all'interno del nostro corpo. Anche il singhiozzo rappresenta una eredita ancestrale - quello che a noi sembra un fastidio momentaneo, nei pesci aiutava la respirazione e la sopravvivenza.
I fossili, come "il grande pesce" Tiktaalik (nella foto il suo teschio), scoperti dal team di Shubin, ci mostrano come in un'istantanea questi passi macroevolutivi e ci spieganoperché quando alcune strutture anatomiche "cedono" (come il ginocchio), cisentiamo come un "pesce fuor d´acqua".
Intervista all´autore (podcast mp3, in inglese):
www.cbc.ca/quirks/archives/07-08/feb23.html
Un approfondimento su sito dell´Universita di Chicago:
http://magazine.uchicago.edu/0812/features/fish_out_of_water.shtml
David Bressan
Studiando l´anatomia dei pesci si può capire perche siamo quello che siamo, con tutti i nostri pregi e difetti, come ora ha pubblicato il paleontologo Neil Shubin, professore dell'Università di Chicago, nel suo libro "Your inner fish".
L´evoluzione adatta strutture già esisenti per nuovi compiti, come le strutture delle pinne dei pesci, in cui, per creare arti di tetrapodi, più che cambiare numero delle ossa é stata modificata la forma e la conformazione di quelle già presenti, riutillizando perfino gli stessi geni che controllavano già l´asimmetria delle pinne. Anche il sistema nervoso non poteva essere reinventato dal niente, per questo spesso i percorsi dei nervi non prendono una via diretta, come probabilmente un "designer" sceglierebbe, ma percorsi snodati all'interno del nostro corpo. Anche il singhiozzo rappresenta una eredita ancestrale - quello che a noi sembra un fastidio momentaneo, nei pesci aiutava la respirazione e la sopravvivenza.
I fossili, come "il grande pesce" Tiktaalik (nella foto il suo teschio), scoperti dal team di Shubin, ci mostrano come in un'istantanea questi passi macroevolutivi e ci spieganoperché quando alcune strutture anatomiche "cedono" (come il ginocchio), cisentiamo come un "pesce fuor d´acqua".
Intervista all´autore (podcast mp3, in inglese):
www.cbc.ca/quirks/archives/07-08/feb23.html
Un approfondimento su sito dell´Universita di Chicago:
http://magazine.uchicago.edu/0812/features/fish_out_of_water.shtml
David Bressan
Le origini del linguaggio
Gli scimpanzè hanno un cervello predisposto al linguaggio verbale: quando sono intenti a comunicare gestualmente infatti si attivano le aree del cervello corrispondenti all'area di Broca dell'uomo, abibita all'elaborazione e alla percezione del linguaggio. Le radici neuroanatomiche di questa caratteristica tipicamente umana sarebbero dunque state presenti già in un antenato comune alle due specie.
L'area di Broca, una regione della corteccia cerebrale localizzata nel giro frontale inferiore (IFG) del cervello umano, è da tempo stata identificata come un'area fondamentale nei processi di elaborazione e comprensione del linguaggio. Dal punto di vista anatomico, di solito si allarga maggiormente verso l'emisfero sinistro, manifestando un'accentuata lateralizzazione, che emerge anche nei pattern di attivazione dei circuiti neuronali durante le attività che coinvolgono il linguaggio.
Gli studi sperimentali mirati a verificare l'esistenza e il funzionamento di una regione omologa all'area di Broca nei primati filogeneticamente vicini all'uomo non hanno fino ad ora dato risultati definitivi, tuttavia lo sviluppo delle tecniche analitiche ha negli ultimi tempi favorito questo tipo di ricerche. Tramite l'utilizzo della tomografia ad emissione di positroni (PET, Positron Emission Tomography), grazie alla quale è possibile creare immagini tridimensionali dei processi funzionali del corpo, un gruppo di ricercatori dello Yerkes National Primate Research Center di Atlanta, Georgia, ha ricostruito la mappa dell'attività cerebrale di tre scimpanzè, mentre erano intenti a comunicare la loro volontà di accedere a risorse alimentari esterne alla gabbia in cui si trovavano.
I risultati, pubblicati sulla rivista Current Biology, indicano un alto livello di attività cerebrale proprio nella regione dell'IFG corrispondente a quella dell'area di Broca umana, manifestando anche la tipica lateralizzazione, quando gli individui oggetto di studio comunicavano attraverso gesti e vocalizzazioni. Per la prima volta sono state fornite prove dirette dell'esistenza di strutture neuroanatomiche associate alla produzione di segnali comunicativi in primati non umani. La comunicazione non verbale degli scimpanzè sembra dunque avere molti aspetti in comune con il linguaggio umano, similarità che si estendono anche al modo in cui il cervello delle due specie precepisce ed elabora le informazioni derivanti da processi comunicativi. I ricercatori ipotizzano che queste scimmie antropomorfe siano in possesso di un cervello già predisposto alla produzione del linguaggio verbale e che quindi le radici di questa caratteristica tipicamente umana fossero già presenti in un antenato comune alle due specie. Ora si aprono nuove prospettive di ricerca, che dovranno dimostrare, su un campione più numeroso di individui, che questo genere di attività cerebrale degli scimpanzè avvenga anche in natura durante la comunicazione tra conspecifici e non si manifesti solo in esemplari che vivono a stretto contatto con l'uomo.
Andrea Romano
L'area di Broca, una regione della corteccia cerebrale localizzata nel giro frontale inferiore (IFG) del cervello umano, è da tempo stata identificata come un'area fondamentale nei processi di elaborazione e comprensione del linguaggio. Dal punto di vista anatomico, di solito si allarga maggiormente verso l'emisfero sinistro, manifestando un'accentuata lateralizzazione, che emerge anche nei pattern di attivazione dei circuiti neuronali durante le attività che coinvolgono il linguaggio.
Gli studi sperimentali mirati a verificare l'esistenza e il funzionamento di una regione omologa all'area di Broca nei primati filogeneticamente vicini all'uomo non hanno fino ad ora dato risultati definitivi, tuttavia lo sviluppo delle tecniche analitiche ha negli ultimi tempi favorito questo tipo di ricerche. Tramite l'utilizzo della tomografia ad emissione di positroni (PET, Positron Emission Tomography), grazie alla quale è possibile creare immagini tridimensionali dei processi funzionali del corpo, un gruppo di ricercatori dello Yerkes National Primate Research Center di Atlanta, Georgia, ha ricostruito la mappa dell'attività cerebrale di tre scimpanzè, mentre erano intenti a comunicare la loro volontà di accedere a risorse alimentari esterne alla gabbia in cui si trovavano.
I risultati, pubblicati sulla rivista Current Biology, indicano un alto livello di attività cerebrale proprio nella regione dell'IFG corrispondente a quella dell'area di Broca umana, manifestando anche la tipica lateralizzazione, quando gli individui oggetto di studio comunicavano attraverso gesti e vocalizzazioni. Per la prima volta sono state fornite prove dirette dell'esistenza di strutture neuroanatomiche associate alla produzione di segnali comunicativi in primati non umani. La comunicazione non verbale degli scimpanzè sembra dunque avere molti aspetti in comune con il linguaggio umano, similarità che si estendono anche al modo in cui il cervello delle due specie precepisce ed elabora le informazioni derivanti da processi comunicativi. I ricercatori ipotizzano che queste scimmie antropomorfe siano in possesso di un cervello già predisposto alla produzione del linguaggio verbale e che quindi le radici di questa caratteristica tipicamente umana fossero già presenti in un antenato comune alle due specie. Ora si aprono nuove prospettive di ricerca, che dovranno dimostrare, su un campione più numeroso di individui, che questo genere di attività cerebrale degli scimpanzè avvenga anche in natura durante la comunicazione tra conspecifici e non si manifesti solo in esemplari che vivono a stretto contatto con l'uomo.
Andrea Romano
Il trionfo di Stephen Jay Gould
la Rivista dei Libri nel fascicolo di marzo 2008 ci regala una bella recensione (testo integrale) dell'ultima raccolta di saggi, pubblicata postuma, di S.J. Gould, The Richness of Life. Il testo è scritto dal quel grande divulgatore che è Richard Lewontin. Più che un racconto è una dedica, un ricordo del più prolifico, polemico, rigoroso e attento divulgatore dell'evoluzionismo contemporaneo
la Rivista dei Libri, marzo 2008
Il trionfo di Stephen Jay Gould
RICHARD C. LEWONTIN
Recensione dei due volumi:
STEPHEN JAY GOULD, The Richness of Life: The Essential Stephen Jay Gould, a cura di Steven Rose, con un'introduzione di Oliver Sacks, New York, Norton, pp. 653, $35,00
ID., Punctuated Equilibrium, Cambridge (MA), Belknap Press/Harvard University Press, pp. 396, $18,95
Paolo Coccia
la Rivista dei Libri, marzo 2008
Il trionfo di Stephen Jay Gould
RICHARD C. LEWONTIN
Recensione dei due volumi:
STEPHEN JAY GOULD, The Richness of Life: The Essential Stephen Jay Gould, a cura di Steven Rose, con un'introduzione di Oliver Sacks, New York, Norton, pp. 653, $35,00
ID., Punctuated Equilibrium, Cambridge (MA), Belknap Press/Harvard University Press, pp. 396, $18,95
Paolo Coccia
Qual è il confine tra le specie?
Uno studio su due specie gemelle di pesci Ciclidi africani mette alla prova le “barriere riproduttive”: dal momento che non c’è incompatibilità genetica, devono entrare in gioco altri fattori.
Van der Sluijs e colleghi (2008) hanno studiato Pundamilia pundamilia e Pundamilia nyererei, due specie di pesci della Famiglia Cichlidae che convivono nel lago Vittoria, in Africa orientale. Ciò che differenzia le due specie è la colorazione dei maschi nel periodo della riproduzione: i maschi di P. nyererei hanno il dorso rosso e i fianchi gialli, mentre i maschi di P. pundamilia hanno una colorazione metallica grigio-blu(*). Come spesso accade, le femmine di queste due specie sono difficilmente distinguibili ai nostri occhi, e anche i maschi possono mostrare la livrea riproduttiva in grado differente a seconda della loro posizione sociale nel contesto locale.
Nonostante le differenze tra le due specie siano sfumate, in natura non si trovano ibridi tra esse, almeno nelle località in cui l’acqua è limpida. Come mai? È una domanda importante: la comprensione dei meccanismi attraverso cui si mantengono le “barriere riproduttive” tra le specie ci dirà qualcosa sui meccanismi attraverso cui i gruppi di organismi si separano, le specie nascono e si moltiplicano.
La risposta potrebbe essere nei geni. Van der Sluijs e colleghi hanno valutato la seguente ipotesi: forse, l’assenza di ibridi in natura dipende da un’incompatibilità genetica tra le due specie. Forse gli ibridi nascono, ma hanno una vita breve, si sviluppano poco, sono sterili, o hanno una fertilità molto ridotta perché il codice genetico è troppo diverso nelle due specie. Forse nascono, ma non partecipano al gioco riproduttivo ed evolutivo di nessuna delle due specie, le quali rimangono quindi separate e continuano a evolvere senza interscambi.
Per verificare questa ipotesi, gli autori hanno pescato esemplari delle due specie e li hanno fatti riprodurre in cattività con tutti i possibili incroci. I loro risultati sono vari e interessanti, ma certamente non forniscono nessuna prova di incompatibilità genica tra le sue specie di Pundamilia. Gli ibridi stanno benissimo, e hanno un tasso di fertilità identico a quello dei “purosangue”! La barriera non è genetica. Da una parte, questo non è molto sorprendente: i dati geologici dicono che il bacino del lago Vittoria è estremamente giovane (al massimo 16.500 anni!), la differenziazione tra le specie endemiche è dunque recentissima, e questo è compatibile con l’alta omogeneità genetica tra le specie.
Dall’altra parte, escludere che i confini tra queste specie siano “fissati” geneticamente apre la strada ad altri livelli di ricerca necessari per comprendere la biodiversità e l’evoluzione. La capacità dell’organismo di riconoscere e scegliere il partner, sebbene influenzata da una base genetica, deve essere importante. Tutto è reso ancor più complesso dal fatto che queste specie si sono originate quasi sicuramente in assenza di vere e proprie barriere geografiche. Quali fenomeni possono nascere all’interno di una specie e dare inizio alla nascita di nuove specie? Gli autori nominano due possibilità:
1) La divergenza di preferenze sessuali. All’interno di una specie, gradualmente si definiscono due tipi di femmine: un sottogruppo tende a preferire maschi con una certa colorazione, l’altro predilige maschi con una colorazione molto diversa (opposta). I maschi con colorazioni estreme e le femmine con preferenze estreme lasceranno più discendenti. Nella prole della generazione successiva, nasceranno femmine con preferenze un po’ più marcate, e maschi con un colorazioni un po’ più caratterizzate. Meno maschi e femmine con caratteristiche intermedie. Col tempo, si potrebbe arrivare a un isolamento quasi completo dei due gruppi all’interno della stessa specie.
2) La divergenza di preferenze ecologiche. Si tratta di un fenomeno simile, che però questa volta coinvolge più direttamente l’ambiente. All’interno di una stessa area, ci possono essere sotto-ambienti diversi - in un lago può trattarsi di profondità differenti. La scelta netta di un habitat o di un altro può essere vincente, mentre gli organismi che vivono a metà tra un habitat e l’altro possono essere un po’ svantaggiati. Questo vivere in luoghi diversi può portare a un accoppiamento non casuale: maschi e femmine che hanno la stessa preferenza ecologica cominciano ad accoppiarsi più di frequente. Intanto, chiaramente, anche i caratteri possono divergere per adattamento ai due ambienti leggermente diversi (selezione naturale disruptive).
La sfida è quella di riuscire a mettere a punto protocolli sperimentali che possano mettere alla prova le diverse ipotesi sull’origine e sul mantenimento dei confini interspecifici. Un campo in cui gli studiosi di Ciclidi africani non cessano di cimentarsi, con risultati sempre affascinanti e interessanti (si veda sotto per una review recente). E anche noi non cesseremo di occuparcene.
Emanuele Serrelli
Riferimenti:
(*) Fotografie delle due specie e degli ibridi sono accessibili a questo link
www.fishecology.ch/index/cichlid_african_great_lakes.htm
Si tratta del sito degli autori, Aquatic Ecology & Macroevolution – Fish Ecology & Evolution: www.fishecology.ch/
L’articolo citato:
Van der Sluijs, I, T.J.M. van Dooren, O. Seehausen, J.J.M. van Alphen (2008), “A test of fitness consequences of hybridization in sibling species of Lake Victoria cichlid fish”, Journal of evolutionary biology 21 (2), pp. 480–491.
Due review recenti sui ciclidi africani:
Turnera, George F. (2007), “Adaptive radiation of cichlid fish”, Current Biology, 17 (19), pp. R827-R831.
Seehausen, Ole (2006), “African cichlid fish: a model system in adaptive radiation research”, Proceedings of the Royal Society B: Biological Sciences, 273 (1597), pp.1987-1998.
Van der Sluijs e colleghi (2008) hanno studiato Pundamilia pundamilia e Pundamilia nyererei, due specie di pesci della Famiglia Cichlidae che convivono nel lago Vittoria, in Africa orientale. Ciò che differenzia le due specie è la colorazione dei maschi nel periodo della riproduzione: i maschi di P. nyererei hanno il dorso rosso e i fianchi gialli, mentre i maschi di P. pundamilia hanno una colorazione metallica grigio-blu(*). Come spesso accade, le femmine di queste due specie sono difficilmente distinguibili ai nostri occhi, e anche i maschi possono mostrare la livrea riproduttiva in grado differente a seconda della loro posizione sociale nel contesto locale.
Nonostante le differenze tra le due specie siano sfumate, in natura non si trovano ibridi tra esse, almeno nelle località in cui l’acqua è limpida. Come mai? È una domanda importante: la comprensione dei meccanismi attraverso cui si mantengono le “barriere riproduttive” tra le specie ci dirà qualcosa sui meccanismi attraverso cui i gruppi di organismi si separano, le specie nascono e si moltiplicano.
La risposta potrebbe essere nei geni. Van der Sluijs e colleghi hanno valutato la seguente ipotesi: forse, l’assenza di ibridi in natura dipende da un’incompatibilità genetica tra le due specie. Forse gli ibridi nascono, ma hanno una vita breve, si sviluppano poco, sono sterili, o hanno una fertilità molto ridotta perché il codice genetico è troppo diverso nelle due specie. Forse nascono, ma non partecipano al gioco riproduttivo ed evolutivo di nessuna delle due specie, le quali rimangono quindi separate e continuano a evolvere senza interscambi.
Per verificare questa ipotesi, gli autori hanno pescato esemplari delle due specie e li hanno fatti riprodurre in cattività con tutti i possibili incroci. I loro risultati sono vari e interessanti, ma certamente non forniscono nessuna prova di incompatibilità genica tra le sue specie di Pundamilia. Gli ibridi stanno benissimo, e hanno un tasso di fertilità identico a quello dei “purosangue”! La barriera non è genetica. Da una parte, questo non è molto sorprendente: i dati geologici dicono che il bacino del lago Vittoria è estremamente giovane (al massimo 16.500 anni!), la differenziazione tra le specie endemiche è dunque recentissima, e questo è compatibile con l’alta omogeneità genetica tra le specie.
Dall’altra parte, escludere che i confini tra queste specie siano “fissati” geneticamente apre la strada ad altri livelli di ricerca necessari per comprendere la biodiversità e l’evoluzione. La capacità dell’organismo di riconoscere e scegliere il partner, sebbene influenzata da una base genetica, deve essere importante. Tutto è reso ancor più complesso dal fatto che queste specie si sono originate quasi sicuramente in assenza di vere e proprie barriere geografiche. Quali fenomeni possono nascere all’interno di una specie e dare inizio alla nascita di nuove specie? Gli autori nominano due possibilità:
1) La divergenza di preferenze sessuali. All’interno di una specie, gradualmente si definiscono due tipi di femmine: un sottogruppo tende a preferire maschi con una certa colorazione, l’altro predilige maschi con una colorazione molto diversa (opposta). I maschi con colorazioni estreme e le femmine con preferenze estreme lasceranno più discendenti. Nella prole della generazione successiva, nasceranno femmine con preferenze un po’ più marcate, e maschi con un colorazioni un po’ più caratterizzate. Meno maschi e femmine con caratteristiche intermedie. Col tempo, si potrebbe arrivare a un isolamento quasi completo dei due gruppi all’interno della stessa specie.
2) La divergenza di preferenze ecologiche. Si tratta di un fenomeno simile, che però questa volta coinvolge più direttamente l’ambiente. All’interno di una stessa area, ci possono essere sotto-ambienti diversi - in un lago può trattarsi di profondità differenti. La scelta netta di un habitat o di un altro può essere vincente, mentre gli organismi che vivono a metà tra un habitat e l’altro possono essere un po’ svantaggiati. Questo vivere in luoghi diversi può portare a un accoppiamento non casuale: maschi e femmine che hanno la stessa preferenza ecologica cominciano ad accoppiarsi più di frequente. Intanto, chiaramente, anche i caratteri possono divergere per adattamento ai due ambienti leggermente diversi (selezione naturale disruptive).
La sfida è quella di riuscire a mettere a punto protocolli sperimentali che possano mettere alla prova le diverse ipotesi sull’origine e sul mantenimento dei confini interspecifici. Un campo in cui gli studiosi di Ciclidi africani non cessano di cimentarsi, con risultati sempre affascinanti e interessanti (si veda sotto per una review recente). E anche noi non cesseremo di occuparcene.
Emanuele Serrelli
Riferimenti:
(*) Fotografie delle due specie e degli ibridi sono accessibili a questo link
www.fishecology.ch/index/cichlid_african_great_lakes.htm
Si tratta del sito degli autori, Aquatic Ecology & Macroevolution – Fish Ecology & Evolution: www.fishecology.ch/
L’articolo citato:
Van der Sluijs, I, T.J.M. van Dooren, O. Seehausen, J.J.M. van Alphen (2008), “A test of fitness consequences of hybridization in sibling species of Lake Victoria cichlid fish”, Journal of evolutionary biology 21 (2), pp. 480–491.
Due review recenti sui ciclidi africani:
Turnera, George F. (2007), “Adaptive radiation of cichlid fish”, Current Biology, 17 (19), pp. R827-R831.
Seehausen, Ole (2006), “African cichlid fish: a model system in adaptive radiation research”, Proceedings of the Royal Society B: Biological Sciences, 273 (1597), pp.1987-1998.
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Riflessioni sul Darwin Day 2008 a Milano
Il mio interesse per il Darwin Day milanese risale alla prima edizione. Posso fornire le prove. C’è una foto in rete dell’edizione 2004 che mi ritrae tra il pubblico…..
Quest’anno la mia partecipazione è stata parziale e limitata alle giornate di venerdì e sabato.
Ad essere precisi giovedì sera ho provato a collegarmi da casa via Internet. Purtroppo la mia connessione con modem usb dava problemi, così nonostante abbia girovagato su e giù per la casa impugnando il portatile come la bacchetta del rabdomante non sono riuscita a sentire granché della conferenza di Eva Jablonka.
Certo lo streaming (quando funziona) è una gran bella innovazione tecnologica e consente di allargare a dismisura il bacino degli utenti - si va in mondovisione - però, lo dico per me, se sono a casa finisce che in contemporanea faccio altre cose e ciò non giova alla concentrazione.
Così il giorno successivo sono andata a Milano, appositamente e in anticipo sull’orario di inizio. Pronta ad accaparrarmi un buon posto a sedere.
Confesso che, sulle prime, scorrendo il programma e scoprendo che il titolo del convegno era La natura addomesticata” avevo un po’ storto il naso. Una “purista” come me vive con un senso di fastidio l’ineluttabile intervento umano sulla natura, essendo vittima, forse, di un sogno romantico che vede protagonista una Natura cieca che segue i suoi ritmi e i suoi meccanismi evolutivi, in silenzio, nello scorrere imperturbabile del tempo, infischiandosene di Homo sapiens…
Tuttavia, applicando un minimo di razionalità non si può negare che l’addomesticazione, come aveva già ben capito il festeggiato Charles Darwin, è un ottima palestra per testare certe teorie…e per comprendere la “trasmutazione” delle specie.
Le relazioni in programma spaziavano nell’universo dell’addomesticazione animale e vegetale, mettendone in luce i diversi aspetti e prospettive. Tutte le presentazioni sono state notevoli per rigore di ricerca e capacità di offrire spunti di riflessione.
Molto azzeccata ed originale l’idea di presentare anche noi umani in un approccio selvatico vs domestico. Utile tanto per mettere subito in chiaro qual è il nostro posto nella natura …..quello di una specie biologica tra le tante.
Questo siamo, e non dobbiamo dimenticarcelo mai. Ma non siamo solo questo.
Il lavoro di Giorgio Manzi aveva un’evidente funzione provocatoria e l’intento di fare riflettere.
Direi che l’obiettivo sia stato pienamente raggiunto. Avverto, infatti, un senso di disagio nell’attribuire l’aggettivo domestico a noi umani, un po’ perché quando penso all’addomesticazione penso ad una selezione direzionale ed intenzionale e ciò implica, necessariamente, un selezionatore ed un selezionato.
Il motivo d’inquietudine è dato dal fatto che, dal punto di vista strettamente connesso all’aspetto biologico, non ci sono ragioni plausibili per escludere la specie Homo sapiens dal novero delle specie addomesticabili, poiché, come credo, nella nostra biologa non c’è qualcosa di particolare, tale da poter escludere a priori il processo.
Inoltre va da sé che, essendo noi umani al vertice della “scala intellettiva” questo processo non potrebbe che essere intraspecifico. Per fortuna “la legge morale dentro di noi” ci impedisce di sperimentare simili abomini (almeno oggi) o forme più o meno deviate di eugenetica o interazioni cibernetiche. Come disse Aldo Schiavone al Festival della scienza di Genova 2007, la tecnica non ci deve portare a mettere in dubbio l’unicità della specie Homo sapiens.
Dunque pur essendo una specie potenzialmente addomesticabile…….. non siamo domestici.
A pensarci bene però non siamo neppure una specie naturale. Circa 10.000 anni fa con l’invenzione dell’agricoltura abbiamo dato inizio ad un processo di manipolazione dell’ambiente che ci ha allontanato sempre più da condizioni di vita integrate nel mondo naturale. Pur essendo diventati una specie ubiquitaria, paradossalmente non siamo affatto “generalisti”, ma strettamente legati ad un tipo di habitat molto particolare, quello che ci siamo costruiti.
Molti dei circa sei miliardi di abitanti di questo pianeta oggi non sarebbero in grado di sopravvive solo di caccia e di raccolta.
I sopravvissuti sarebbero quelli in grado di “inselvatichirsi”. Ma allora noi invece siamo… domestici?
Penso che Homo sapiens non possa essere definito, né un animale selvatico, né un animale domestico, ma piuttosto un animale culturale: la proprietà emergente di un sistema complesso di natura e cultura.
Già la nostra complessa cultura.
Un processo di accumulo di conoscenze ed invenzioni, trasmesso con meccanismi lamarckiani, caratterizzato da momenti di espansione, da altri di recessione, di convergenze, di oblio, ritorni. Una roba complicatissima ed efficacissima attraverso la quale abbiamo modificato il pianeta, rendendolo habitat idoneo all’animale culturale .
Domare la natura è parte della nostra cultura ed è stato affascinante seguire alcune tappe dell’addomesticazione di specie animali come il maiale , il cane le capre e scoprire quale peso hanno avuto nella storia e nell’espansione geografica dell’umanità.
Devo dire di essere stata particolarmente colpita dalla relazione di Paolo Ciucci sulla addomesticazione del cane. L’estrema diversificazione morfologica delle razze canine mi ha sempre affascinato, come prova della possibilità di avere grandi cambiamenti di forme in tempi relativamente brevi.
Scoprire poi che responsabili di questi cambiamenti morfologici sono meccanismi come la eterocronia e la neotenia con funzione accelerativa del cambiamento, ha aggiunto fascino (da brividi) alla questione.
La selezione artificiale come intervento dell’uomo sulla natura fa riflettere e comporta implicazioni su più livelli.
Innanzitutto è prova ulteriore che le specie cambiano per effetto di meccanismi naturali. La selezione artificiale imprime una direzionalità (con effetti a volte imprevisti) al cambiamento, ma i fattori ed i meccanismi attraverso i quali si produce il cambiamento sono i medesimi che agiscono in natura. La selezione artificiale dimostra ancora una volta che l’evoluzione delle specie non segue un percorso predefinito e che l’adattamento è un effetto contingente valutabile a posteriori, non necessitato. Se non fosse così la selezione artificiale non potrebbe avere alcun successo.
Non solo. Le “manipolazioni” restituite in natura, vale a dire le specie domestiche inselvatichite, producono nuovi cambiamenti, non controllabili. Pensiamo ai branchi di cani inselvatichiti che si incrociano con i lupi appenninici Oppure pensiamo al Dingo, che ormai siamo portati a percepire come una specie naturale, anche se non lo è.
Tutto ciò non può non farci riflettere, ma comunque la si pensi, certo è che l’intervento umano sulla natura ha radici lontane ed è irreversibile.
E’ dunque assurdo avere paura degli OGM, poiché si tratta solo dell’ultima frontiera di un processo sorto addirittura prima dell’invenzione dell’agricoltura, infatti pare che l’addomesticazione del cane risalga addirittura a 20.000 anni fa .
Tuttavia, noi cittadini il problema etico ce lo dobbiamo porre, quindi è importante che ci vengano messi a disposizione con onestà tutti i dati necessari. Ogni intervento umano sulla natura non è un fatto isolato, interagisce con il tutto. Già Darwin, se non ho capito male, si era posto il problema della variazione correlata come ha ricordato Marcello Buratti, quindi è importante tenere conto di tutti i possibili effetti.
Ancora una volta un’informazione rigorosa ed obiettiva; quella insomma che tiene conto delle implicazioni, degli effetti collaterali anche su ampia scala temporale è l’unica via che porta a formare opinioni meditate nelle persone, consentendo loro di fare le scelte corrette sotto il profilo etico.
Poiché l’obiettivo principale di un convegno di divulgazione scientifica è quello di fare informazione, di stimolare la riflessione ed il desiderio di saperne di più, se anche uno solo dei relatori avesse ricevuto una richiesta di approfondimento via e mail, ciò costituirebbe prova del totale successo dell’impresa.
Naturalmente io so per certo che ciò è avvenuto….
Ed infine la presentazione della edizione italiana, curata da Telmo Pievani, di Taccuini di Charles Darwin.
A mio parere questo evento avrebbe dovuto essere collocato in chiusura della manifestazione: dulcis in fundo, alla moda dei latini.
Mi piace andare alla presentazione delle opere che mi interessano o a quelle dei libri dei miei autori preferiti….. e non solo nella speranza di un autografo con dedica.
La ragione è che alle presentazioni si imparano un sacco di particolari inediti; c’è modo di conoscere le motivazioni, i retroscena della pubblicazione dell’opera, direttamente dalla voce dei protagonisti
Con un opera come Taccuini di Charles Darwin questa esigenza era ancor più comprensibile. Un’opera difficile, frammentaria. Il percorso intellettuale di un giovane naturalista al ritorno dal “viaggio della vita” . Un’opera che l’autore non destinò, né avrebbe voluto destinare al pubblico, mettendolo anche per iscritto, in un caso: Nothing for any purpose
Ma allora perché pubblicare, se ciò era contrario alla volontà dell’autore?
La risposta che mi sono data a questa domanda, dopo la presentazione del libro, la lettura della prefazione di Niles Eldredge e le introduzioni di Telmo Pievani ad ognuno dei Taccuini pubblicati, è stata questa: un puro atto d’amore.
Il tributo d’affetto e stima verso un uomo straordinario che ha dato molto alla storia del pensiero scientifico. Il desiderio di fare conosce il percorso intellettuale di un uomo che ha avuto la capacità di osservare i fenomeni naturali senza preconcetti, affidandosi alla oggettività dei dati ed al rigore di un metodo.
Alla luce di queste motivazione, Charles Darwin avrebbe certamente apprezzato l’iniziativa.
Manuela Lugli
Quest’anno la mia partecipazione è stata parziale e limitata alle giornate di venerdì e sabato.
Ad essere precisi giovedì sera ho provato a collegarmi da casa via Internet. Purtroppo la mia connessione con modem usb dava problemi, così nonostante abbia girovagato su e giù per la casa impugnando il portatile come la bacchetta del rabdomante non sono riuscita a sentire granché della conferenza di Eva Jablonka.
Certo lo streaming (quando funziona) è una gran bella innovazione tecnologica e consente di allargare a dismisura il bacino degli utenti - si va in mondovisione - però, lo dico per me, se sono a casa finisce che in contemporanea faccio altre cose e ciò non giova alla concentrazione.
Così il giorno successivo sono andata a Milano, appositamente e in anticipo sull’orario di inizio. Pronta ad accaparrarmi un buon posto a sedere.
Confesso che, sulle prime, scorrendo il programma e scoprendo che il titolo del convegno era La natura addomesticata” avevo un po’ storto il naso. Una “purista” come me vive con un senso di fastidio l’ineluttabile intervento umano sulla natura, essendo vittima, forse, di un sogno romantico che vede protagonista una Natura cieca che segue i suoi ritmi e i suoi meccanismi evolutivi, in silenzio, nello scorrere imperturbabile del tempo, infischiandosene di Homo sapiens…
Tuttavia, applicando un minimo di razionalità non si può negare che l’addomesticazione, come aveva già ben capito il festeggiato Charles Darwin, è un ottima palestra per testare certe teorie…e per comprendere la “trasmutazione” delle specie.
Le relazioni in programma spaziavano nell’universo dell’addomesticazione animale e vegetale, mettendone in luce i diversi aspetti e prospettive. Tutte le presentazioni sono state notevoli per rigore di ricerca e capacità di offrire spunti di riflessione.
Molto azzeccata ed originale l’idea di presentare anche noi umani in un approccio selvatico vs domestico. Utile tanto per mettere subito in chiaro qual è il nostro posto nella natura …..quello di una specie biologica tra le tante.
Questo siamo, e non dobbiamo dimenticarcelo mai. Ma non siamo solo questo.
Il lavoro di Giorgio Manzi aveva un’evidente funzione provocatoria e l’intento di fare riflettere.
Direi che l’obiettivo sia stato pienamente raggiunto. Avverto, infatti, un senso di disagio nell’attribuire l’aggettivo domestico a noi umani, un po’ perché quando penso all’addomesticazione penso ad una selezione direzionale ed intenzionale e ciò implica, necessariamente, un selezionatore ed un selezionato.
Il motivo d’inquietudine è dato dal fatto che, dal punto di vista strettamente connesso all’aspetto biologico, non ci sono ragioni plausibili per escludere la specie Homo sapiens dal novero delle specie addomesticabili, poiché, come credo, nella nostra biologa non c’è qualcosa di particolare, tale da poter escludere a priori il processo.
Inoltre va da sé che, essendo noi umani al vertice della “scala intellettiva” questo processo non potrebbe che essere intraspecifico. Per fortuna “la legge morale dentro di noi” ci impedisce di sperimentare simili abomini (almeno oggi) o forme più o meno deviate di eugenetica o interazioni cibernetiche. Come disse Aldo Schiavone al Festival della scienza di Genova 2007, la tecnica non ci deve portare a mettere in dubbio l’unicità della specie Homo sapiens.
Dunque pur essendo una specie potenzialmente addomesticabile…….. non siamo domestici.
A pensarci bene però non siamo neppure una specie naturale. Circa 10.000 anni fa con l’invenzione dell’agricoltura abbiamo dato inizio ad un processo di manipolazione dell’ambiente che ci ha allontanato sempre più da condizioni di vita integrate nel mondo naturale. Pur essendo diventati una specie ubiquitaria, paradossalmente non siamo affatto “generalisti”, ma strettamente legati ad un tipo di habitat molto particolare, quello che ci siamo costruiti.
Molti dei circa sei miliardi di abitanti di questo pianeta oggi non sarebbero in grado di sopravvive solo di caccia e di raccolta.
I sopravvissuti sarebbero quelli in grado di “inselvatichirsi”. Ma allora noi invece siamo… domestici?
Penso che Homo sapiens non possa essere definito, né un animale selvatico, né un animale domestico, ma piuttosto un animale culturale: la proprietà emergente di un sistema complesso di natura e cultura.
Già la nostra complessa cultura.
Un processo di accumulo di conoscenze ed invenzioni, trasmesso con meccanismi lamarckiani, caratterizzato da momenti di espansione, da altri di recessione, di convergenze, di oblio, ritorni. Una roba complicatissima ed efficacissima attraverso la quale abbiamo modificato il pianeta, rendendolo habitat idoneo all’animale culturale .
Domare la natura è parte della nostra cultura ed è stato affascinante seguire alcune tappe dell’addomesticazione di specie animali come il maiale , il cane le capre e scoprire quale peso hanno avuto nella storia e nell’espansione geografica dell’umanità.
Devo dire di essere stata particolarmente colpita dalla relazione di Paolo Ciucci sulla addomesticazione del cane. L’estrema diversificazione morfologica delle razze canine mi ha sempre affascinato, come prova della possibilità di avere grandi cambiamenti di forme in tempi relativamente brevi.
Scoprire poi che responsabili di questi cambiamenti morfologici sono meccanismi come la eterocronia e la neotenia con funzione accelerativa del cambiamento, ha aggiunto fascino (da brividi) alla questione.
La selezione artificiale come intervento dell’uomo sulla natura fa riflettere e comporta implicazioni su più livelli.
Innanzitutto è prova ulteriore che le specie cambiano per effetto di meccanismi naturali. La selezione artificiale imprime una direzionalità (con effetti a volte imprevisti) al cambiamento, ma i fattori ed i meccanismi attraverso i quali si produce il cambiamento sono i medesimi che agiscono in natura. La selezione artificiale dimostra ancora una volta che l’evoluzione delle specie non segue un percorso predefinito e che l’adattamento è un effetto contingente valutabile a posteriori, non necessitato. Se non fosse così la selezione artificiale non potrebbe avere alcun successo.
Non solo. Le “manipolazioni” restituite in natura, vale a dire le specie domestiche inselvatichite, producono nuovi cambiamenti, non controllabili. Pensiamo ai branchi di cani inselvatichiti che si incrociano con i lupi appenninici Oppure pensiamo al Dingo, che ormai siamo portati a percepire come una specie naturale, anche se non lo è.
Tutto ciò non può non farci riflettere, ma comunque la si pensi, certo è che l’intervento umano sulla natura ha radici lontane ed è irreversibile.
E’ dunque assurdo avere paura degli OGM, poiché si tratta solo dell’ultima frontiera di un processo sorto addirittura prima dell’invenzione dell’agricoltura, infatti pare che l’addomesticazione del cane risalga addirittura a 20.000 anni fa .
Tuttavia, noi cittadini il problema etico ce lo dobbiamo porre, quindi è importante che ci vengano messi a disposizione con onestà tutti i dati necessari. Ogni intervento umano sulla natura non è un fatto isolato, interagisce con il tutto. Già Darwin, se non ho capito male, si era posto il problema della variazione correlata come ha ricordato Marcello Buratti, quindi è importante tenere conto di tutti i possibili effetti.
Ancora una volta un’informazione rigorosa ed obiettiva; quella insomma che tiene conto delle implicazioni, degli effetti collaterali anche su ampia scala temporale è l’unica via che porta a formare opinioni meditate nelle persone, consentendo loro di fare le scelte corrette sotto il profilo etico.
Poiché l’obiettivo principale di un convegno di divulgazione scientifica è quello di fare informazione, di stimolare la riflessione ed il desiderio di saperne di più, se anche uno solo dei relatori avesse ricevuto una richiesta di approfondimento via e mail, ciò costituirebbe prova del totale successo dell’impresa.
Naturalmente io so per certo che ciò è avvenuto….
Ed infine la presentazione della edizione italiana, curata da Telmo Pievani, di Taccuini di Charles Darwin.
A mio parere questo evento avrebbe dovuto essere collocato in chiusura della manifestazione: dulcis in fundo, alla moda dei latini.
Mi piace andare alla presentazione delle opere che mi interessano o a quelle dei libri dei miei autori preferiti….. e non solo nella speranza di un autografo con dedica.
La ragione è che alle presentazioni si imparano un sacco di particolari inediti; c’è modo di conoscere le motivazioni, i retroscena della pubblicazione dell’opera, direttamente dalla voce dei protagonisti
Con un opera come Taccuini di Charles Darwin questa esigenza era ancor più comprensibile. Un’opera difficile, frammentaria. Il percorso intellettuale di un giovane naturalista al ritorno dal “viaggio della vita” . Un’opera che l’autore non destinò, né avrebbe voluto destinare al pubblico, mettendolo anche per iscritto, in un caso: Nothing for any purpose
Ma allora perché pubblicare, se ciò era contrario alla volontà dell’autore?
La risposta che mi sono data a questa domanda, dopo la presentazione del libro, la lettura della prefazione di Niles Eldredge e le introduzioni di Telmo Pievani ad ognuno dei Taccuini pubblicati, è stata questa: un puro atto d’amore.
Il tributo d’affetto e stima verso un uomo straordinario che ha dato molto alla storia del pensiero scientifico. Il desiderio di fare conosce il percorso intellettuale di un uomo che ha avuto la capacità di osservare i fenomeni naturali senza preconcetti, affidandosi alla oggettività dei dati ed al rigore di un metodo.
Alla luce di queste motivazione, Charles Darwin avrebbe certamente apprezzato l’iniziativa.
Manuela Lugli
L'evoluzione all'opera: i pesci fossili insegnano
Nelle barriere coralline, nel passato come oggi, non c'è nulla di nuovo sotto il sole: storie di convergenze adattative e diversità
Nelle barriere coralline l'evoluzione è sempre all'opera. Nel primo incontro del secondo ciclo degli "ApeGeo", gli aperitivi scientifici del Dipartimento di Scienze della Terra Ardito Desio dell'Università degli Studi di Milano, Andrea Tintori, professore ordinario di Paleontologia e responsabile del Laboratorio di Paleontologia dei Vertebrati, ha raccontato una storia di convergenze adattative.Il prof. Tintori si è in particolare soffermato su quei pesci che si nutrono di qualcosa di duro e hanno delle specializzazioni per questa dieta: i pesci durofagi. Ci sono diversi modi per essere durofago, ma andando a studiare pesci con dieta simile di centinaia di milioni di anni fa e quelli di oggi vediamo che ci sono delle somiglianze. "Se osserviamo un Sarago di oggi o un Sargodon della fine del Triassico vediamo che entrambi hanno dei denti anteriori per afferrare e poi posteriormente degli altri denti per triturare". E lo stesso vale nel caso dell'Orata e del Paralepidotus: adattamenti molto simili per una dieta molto simile. Siccome non si tratta di specie imparentate tra di loro siamo davanti a un magnifico esempio di convergenza adattativa. Come dice il prof. Tintori, dunque: "nulla di nuovo sotto il sole".
I pesci teleostei da soli comprendono più specie che tutti gli altri vertebrati messi insieme. La chiave di questa diversità sta anche nella grande varietà di adattamenti trofici che questi hanno saputo evolvere", spiega Tintori. Un recente studio pubblicato su Biological Journal of the Linnean Society è andato a indagare proprio su questo punto e ha mostrato come l'evoluzione di nuove articolazioni mandibolari abbia portato alla diversificazione trofica nei pesci di barriera. L'articolazione intramandibolare si sarebbe evoluta indipendentemente dalle tre alle cinque volte permettendo nuovi modi di muovere la bocca e di nutrirsi.Immergersi e nuotare tra i colori della barriera corallina è una esperienza incredibile. Trovare tra le rocce delle Grigne o nella pesciara di Bolca. Nonostante i paleontologi non vedano i mille colori delle loro barriere pietrificate, riescono studiando denti e scheletri dei loro abitanti a regalarci una visione dell'evoluzione che, come dice Tintori "ha più fantasia di Speilberg".
Chiara Ceci
Nelle barriere coralline l'evoluzione è sempre all'opera. Nel primo incontro del secondo ciclo degli "ApeGeo", gli aperitivi scientifici del Dipartimento di Scienze della Terra Ardito Desio dell'Università degli Studi di Milano, Andrea Tintori, professore ordinario di Paleontologia e responsabile del Laboratorio di Paleontologia dei Vertebrati, ha raccontato una storia di convergenze adattative.Il prof. Tintori si è in particolare soffermato su quei pesci che si nutrono di qualcosa di duro e hanno delle specializzazioni per questa dieta: i pesci durofagi. Ci sono diversi modi per essere durofago, ma andando a studiare pesci con dieta simile di centinaia di milioni di anni fa e quelli di oggi vediamo che ci sono delle somiglianze. "Se osserviamo un Sarago di oggi o un Sargodon della fine del Triassico vediamo che entrambi hanno dei denti anteriori per afferrare e poi posteriormente degli altri denti per triturare". E lo stesso vale nel caso dell'Orata e del Paralepidotus: adattamenti molto simili per una dieta molto simile. Siccome non si tratta di specie imparentate tra di loro siamo davanti a un magnifico esempio di convergenza adattativa. Come dice il prof. Tintori, dunque: "nulla di nuovo sotto il sole".
I pesci teleostei da soli comprendono più specie che tutti gli altri vertebrati messi insieme. La chiave di questa diversità sta anche nella grande varietà di adattamenti trofici che questi hanno saputo evolvere", spiega Tintori. Un recente studio pubblicato su Biological Journal of the Linnean Society è andato a indagare proprio su questo punto e ha mostrato come l'evoluzione di nuove articolazioni mandibolari abbia portato alla diversificazione trofica nei pesci di barriera. L'articolazione intramandibolare si sarebbe evoluta indipendentemente dalle tre alle cinque volte permettendo nuovi modi di muovere la bocca e di nutrirsi.Immergersi e nuotare tra i colori della barriera corallina è una esperienza incredibile. Trovare tra le rocce delle Grigne o nella pesciara di Bolca. Nonostante i paleontologi non vedano i mille colori delle loro barriere pietrificate, riescono studiando denti e scheletri dei loro abitanti a regalarci una visione dell'evoluzione che, come dice Tintori "ha più fantasia di Speilberg".
Chiara Ceci
Dieci 'popolari' momenti della storia evolutiva della vita animale
Donald Prothero (professore presso l'Occidental College di Los Angeles) propone, sull'ultimo numero della rivista NewScientist, una semplice, ma non semplicistica, descrizione di dieci 'popolari' momenti della storia evolutiva della vita animale la cui comprensione è stata migliorata, o rivoluzionata, da recenti, importanti, scoperte paleontologiche.
I temi fondamentali dell'articolo - come d'altra parte del libro di fresca pubblicazione dello stesso Prothero dal quale gli esempi sono tratti: 'Evolution: What the fossils say and why it matters' (Columbia University Press) - sono due. Se l'intento dell'autore è principalmente quello di delineare il ruolo e l'importanza che la documentazione fossile ha nel supportare il nostro tentativo di ricostruire il succedersi degli eventi nella storia naturale - in particolare nel caso di quelle che erroneamente vengono spesso definite 'tappe fondamentali' dell'evoluzione - a più riprese emergono riferimenti al dibattito che l'impostazione creazionista ha sollevato attorno alla questione dei 'missing links', gli 'anelli di congiunzione' mancanti.
Prothero inizia il suo intervento chiarendo brevemente come la stessa dicitura 'anelli di congiunzione' sia imprecisa e fuorviante; non dobbiamo infatti, suggerisce, aspettarci di trovare forme che occupino una posizione esattamente a 'metà strada' tra altri due organismi (come nell'irrealistico immaginario della grande, teleologica, 'catena dell'essere') ne, tanto meno, aspettarci che queste forme debbano essere necessariamente rappresentate da fossili (portando quale esempio la posizione filogenetica occupata dagli onicofori rispetto a nematodi ed artropodi). Un cosiddetto 'missing link', semplicemente, registra aspetti della transizione evolutiva che occorre quando un lineage origina da un altro, afferma l'autore.
Dieci sequenze di transizione ben documentate nel registro fossile (come quella della progressiva 'terrestrializzazione' dei tetrapodi, o del secondario adattamento all'acqua dei pinnipedi) sono quindi brevemente descritte.
Giocando poi provocatoriamente sul significato di 'missing link' nell'ambito del dibattito antievoluzionista, Prothero concludeevidenziando come, in taluni casi, abbiamo a disposizione delle forme di transizione che non potrebbero meglio rappresentare un 'missing link', eccetto per il fatto che non sono 'missing', ma che sono realmente sotto ai nostri occhi, a testimoniare come il processo evolutivo abbia plasmato gli organismi nel passato e come lo stia continuando a fare tuttora.
L'articolo:
Prothero, D. 2008. What missing link?. NewScientist, 1 March 2008, pp.35-41.
Massimo Bernardi
I temi fondamentali dell'articolo - come d'altra parte del libro di fresca pubblicazione dello stesso Prothero dal quale gli esempi sono tratti: 'Evolution: What the fossils say and why it matters' (Columbia University Press) - sono due. Se l'intento dell'autore è principalmente quello di delineare il ruolo e l'importanza che la documentazione fossile ha nel supportare il nostro tentativo di ricostruire il succedersi degli eventi nella storia naturale - in particolare nel caso di quelle che erroneamente vengono spesso definite 'tappe fondamentali' dell'evoluzione - a più riprese emergono riferimenti al dibattito che l'impostazione creazionista ha sollevato attorno alla questione dei 'missing links', gli 'anelli di congiunzione' mancanti.
Prothero inizia il suo intervento chiarendo brevemente come la stessa dicitura 'anelli di congiunzione' sia imprecisa e fuorviante; non dobbiamo infatti, suggerisce, aspettarci di trovare forme che occupino una posizione esattamente a 'metà strada' tra altri due organismi (come nell'irrealistico immaginario della grande, teleologica, 'catena dell'essere') ne, tanto meno, aspettarci che queste forme debbano essere necessariamente rappresentate da fossili (portando quale esempio la posizione filogenetica occupata dagli onicofori rispetto a nematodi ed artropodi). Un cosiddetto 'missing link', semplicemente, registra aspetti della transizione evolutiva che occorre quando un lineage origina da un altro, afferma l'autore.
Dieci sequenze di transizione ben documentate nel registro fossile (come quella della progressiva 'terrestrializzazione' dei tetrapodi, o del secondario adattamento all'acqua dei pinnipedi) sono quindi brevemente descritte.
Giocando poi provocatoriamente sul significato di 'missing link' nell'ambito del dibattito antievoluzionista, Prothero concludeevidenziando come, in taluni casi, abbiamo a disposizione delle forme di transizione che non potrebbero meglio rappresentare un 'missing link', eccetto per il fatto che non sono 'missing', ma che sono realmente sotto ai nostri occhi, a testimoniare come il processo evolutivo abbia plasmato gli organismi nel passato e come lo stia continuando a fare tuttora.
L'articolo:
Prothero, D. 2008. What missing link?. NewScientist, 1 March 2008, pp.35-41.
Massimo Bernardi
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Mi fa specie!
All'inaugurazione dell'anno accademico delle Pontificie università ecclesiastiche non mi hanno invitato.
Mi fa specie!
Si tratta del titolo dato all'immagine proveniente dalla rivista ècole, fascicolo di Marzo 2008
Mi fa specie!
Si tratta del titolo dato all'immagine proveniente dalla rivista ècole, fascicolo di Marzo 2008
Da noi nulla resta sepolto per sempre
Ora online il nuovo sito del Vertebrate Paleontology Lab del Dipartimento di Scienze della Terra A. Desio dell'Università degli Studi di Milano.
Quanto velocemente evolve il DNA mitocondriale?
Si ritiene comunemente che il DNA mitocondriale evolva dieci volte più velocemente di quello nucleare: ma è sempre vero? Un articolo in pubblicazione sul Journal of Molecular Evolution mostra come Poriferi e Cnidari non seguano questa regola.
Nel corso degli ultimi anni il DNA barcoding è stato ripetutamente proposto come strumento per inventariare la biodiversità del nostro pianeta e numerosi gruppi di ricerca ne hanno verificato l'applicabilità in diversi taxa.
Il presupposto essenziale perché il barcoding possa funzionare è che esista a livello del gene coxI (utilizzato come marcatore molecolare per i progetti di DNA barcoding) una sufficiente variabilità per distinguere tutti i viventi. In particolare, il barcoding si fonda sul concetto di barcoding gap ovvero sul fatto che esista una variabilità intraspecifica della sequenza coxI inferiore alla variabilità interspecifica. Questo presupposto può essere tuttavia vero solamente se il DNA mitocondriale evolve in modo sufficientemente veloce per accumulare quel minimo di variabilità interspecifica che serve per usare la sequenza coxI come “firma molecolare” di una specie. Al momento non è, tuttavia, noto quali siano i reali limiti di applicabilità del DNA barcoding e soprattutto non è certo che il concetto di barcoding gap trovi una reale applicabilità in tutti i viventi.
Sul sito della rivista Journal of Molecular Evolution è disponibile in anteprima un interessante articolo di Danwei Huang, Rudolf Meier, Peter A. Todd e Loke Ming Chou dal titolo “Slow mitochondrial COI sequence evolution at the base of the metazoan tree and its implications for DNA barcoding” in cui gli autori mostrano come Poriferi e Cnidari presentino sequenze mitocondriali con ridotto tasso di evoluzione.
In particolare, avvalendosi di oltre 600 sequenze coxI (nella pubblicazione gli autori fanno riferimento al gene con la vecchia denominazione di COI) viene mostrano che il DNA mitocondriale delle 224 specie di poriferi e cnidari studiati ha un ridotto tasso di divergenza e quindi una variabilità insufficiente per permettere l’identificazione delle specie avvalendosi del DNA barcoding.
Da un punto di vista evolutivo è interessane notare che anche i funghi hanno un ridotto tasso di divergenza nella sequenza dei geni mitocondriali ( e di coxI in particolare) ad indicare che la presenza di un genoma mitocondriale con un ridotto tasso di evoluzione è un carattere plesiomorfo (primitivo) nei Metazoi.
Mauro Mandrioli
Danwei Huang, Rudolf Meier, Peter A. Todd, Loke Ming Chou (2008) “Slow mitochondrial COI sequence evolution at the base of the metazoan tree and its implications for DNA barcoding” Journal of Molecular Evolution, doi 10.1007/s00239-008-9069-5.
Nel corso degli ultimi anni il DNA barcoding è stato ripetutamente proposto come strumento per inventariare la biodiversità del nostro pianeta e numerosi gruppi di ricerca ne hanno verificato l'applicabilità in diversi taxa.
Il presupposto essenziale perché il barcoding possa funzionare è che esista a livello del gene coxI (utilizzato come marcatore molecolare per i progetti di DNA barcoding) una sufficiente variabilità per distinguere tutti i viventi. In particolare, il barcoding si fonda sul concetto di barcoding gap ovvero sul fatto che esista una variabilità intraspecifica della sequenza coxI inferiore alla variabilità interspecifica. Questo presupposto può essere tuttavia vero solamente se il DNA mitocondriale evolve in modo sufficientemente veloce per accumulare quel minimo di variabilità interspecifica che serve per usare la sequenza coxI come “firma molecolare” di una specie. Al momento non è, tuttavia, noto quali siano i reali limiti di applicabilità del DNA barcoding e soprattutto non è certo che il concetto di barcoding gap trovi una reale applicabilità in tutti i viventi.
Sul sito della rivista Journal of Molecular Evolution è disponibile in anteprima un interessante articolo di Danwei Huang, Rudolf Meier, Peter A. Todd e Loke Ming Chou dal titolo “Slow mitochondrial COI sequence evolution at the base of the metazoan tree and its implications for DNA barcoding” in cui gli autori mostrano come Poriferi e Cnidari presentino sequenze mitocondriali con ridotto tasso di evoluzione.
In particolare, avvalendosi di oltre 600 sequenze coxI (nella pubblicazione gli autori fanno riferimento al gene con la vecchia denominazione di COI) viene mostrano che il DNA mitocondriale delle 224 specie di poriferi e cnidari studiati ha un ridotto tasso di divergenza e quindi una variabilità insufficiente per permettere l’identificazione delle specie avvalendosi del DNA barcoding.
Da un punto di vista evolutivo è interessane notare che anche i funghi hanno un ridotto tasso di divergenza nella sequenza dei geni mitocondriali ( e di coxI in particolare) ad indicare che la presenza di un genoma mitocondriale con un ridotto tasso di evoluzione è un carattere plesiomorfo (primitivo) nei Metazoi.
Mauro Mandrioli
Danwei Huang, Rudolf Meier, Peter A. Todd, Loke Ming Chou (2008) “Slow mitochondrial COI sequence evolution at the base of the metazoan tree and its implications for DNA barcoding” Journal of Molecular Evolution, doi 10.1007/s00239-008-9069-5.
Esattamento non è un errore grammaticale
Il termine exaptation o esattamento ricorre così poco nel dibattito evoluzionistico che anche un impegnativo articolo sull'argomento merita di essere segnalato.
Sull'ultimo fascicolo della rivista Journal of Biology, una rivista Open Access che consente l'accesso ai testi integrali (occorre solo registrarsi), potete leggere un articolo impegnativo sull'exattamento, la cooptazione di una forma, una funzione, un circuito biochimico, un pezzo di DNA verso altri scopi e funzioni.
Molto note sono le piume degli uccelli che da strumenti di difesa dal freddo sono diventati strumenti per il volo. In questo articolo si discute di particolari sequenze geniche parassite (Long interspersed nuclear elements, LINEs) della classe dei retrotrasposoni, che sembrano modificare le funzioni di ogni particolare sequenza genica, se si insediano nelle sue vicinanze!
Kathleen H Burns and Jef D BoekeGreat exaptations Journal of Biology 2008
Il termine exaptation è ben spiegato da Telmo Pievani nel capitolo:T. Pievani, Voce “Exattamento”, in L. Casadio, U. Telfener (a cura di), Sistemica. Voci e percorsi nella complessità, Bollati Boringhieri, Torino, 2002, pp. 324-328.
Paolo Coccia
Sull'ultimo fascicolo della rivista Journal of Biology, una rivista Open Access che consente l'accesso ai testi integrali (occorre solo registrarsi), potete leggere un articolo impegnativo sull'exattamento, la cooptazione di una forma, una funzione, un circuito biochimico, un pezzo di DNA verso altri scopi e funzioni.
Molto note sono le piume degli uccelli che da strumenti di difesa dal freddo sono diventati strumenti per il volo. In questo articolo si discute di particolari sequenze geniche parassite (Long interspersed nuclear elements, LINEs) della classe dei retrotrasposoni, che sembrano modificare le funzioni di ogni particolare sequenza genica, se si insediano nelle sue vicinanze!
Kathleen H Burns and Jef D BoekeGreat exaptations Journal of Biology 2008
Il termine exaptation è ben spiegato da Telmo Pievani nel capitolo:T. Pievani, Voce “Exattamento”, in L. Casadio, U. Telfener (a cura di), Sistemica. Voci e percorsi nella complessità, Bollati Boringhieri, Torino, 2002, pp. 324-328.
Paolo Coccia
Darwin, quando divenne evoluzionista? La parola a Niles Eldredge
Quando avvenne la conversione di Darwin? Una breve ma interessante riflessione tra "Darwin. Alla scoperta dell’albero della vita" e i "Taccuini".
Porsi questa domanda, secondo Niles Eldredge, non è una “questione da poco”, parlandone a più riprese nel suo Darwin. Alla scoperta dell’albero della vita e ritornandoci nella sua prefazione ai Taccuini darwiniani, da poco pubblicati in italiano a cura di Telmo Pievani.
Secondo l’illustre studioso darwiniano «non sapremo mai quale fu in effetti il momento - la fase precisa della sua vita [...] in cui [Darwin] abbandonò il creazionismo per una storia naturalistica, una storia dell’evoluzione per cause naturali». Tuttavia, e risiede qui la forza e l’innovazione di questa tesi che sta raccogliendo sempre più consensi fra gli studiosi darwiniani, Eldredge è convinto che ciò avvenne già «a bordo del Beagle» (1).
Nei moltissimi appunti che Darwin prese in viaggio, sugli animali, sui fossili, ma anche riguardo alla natura dell’estinzione, egli infatti rintraccia le «primissime elucubrazioni» (2), per quanto ancora criptiche, di quella che oggi si definisce “teoria evolutiva”. La cautela che Darwin adoperò a bordo nel trattare seriamente la possibilità che le specie non fossero immutabili, cioè che in realtà potessero trarre origine da cause naturali, non portò nessun passeggero sul brigantino a interpretare questi brevi saggi come “ereticamente” trasmutazionali; questo atteggiamento reticente ha perciò indotto alcuni «studiosi» dei nostri giorni a non considerare (erroneamente secondo Eldredge) Darwin un “evoluzionista” prima del suo ritorno a Londra.
Il naturalista, pur nascondendo al pubblico la sua “tribolata” scoperta (e non folgorazione!) fino a quando non “fu stanato” da Wallace, esplicita le sue concezioni evoluzionistiche solo dopo il suo ritorno in patria nell’ottobre del 1836, nei taccuini, senz’altro più dettagliati dei diari stesi sul Beagle ma pur sempre “appunti”, pieni quindi di commistioni di generi e stilisticamente poco rifiniti e coerenti. Nella seconda parte Taccuino Rosso, cominciato sul Beagle e terminato a Londra nel 1837, Darwin “abbozza” quella che sarà la teoria dell’evoluzione per selezione naturale, arricchendo in maniera sostanziale la versione “criptica” della nozione della trasmutazione presente negli appunti di viaggio; nel 1837, con il primo trasmutation notebook, ossia il Taccuino B che fu “siglato” con il primo albero dell’evoluzione, Darwin trasforma il suo approccio evoluzionistico da “saltazionista” a ipotetico-deduttivo e ricerca la “causa” dell’evoluzione, definita poi “selezione naturale”nel Taccuino D e sviluppata in maniera chiara e definitiva nel Taccuino E.
Non solo per Eldredge allora Darwin manifestava nozioni “embrionali” dell’evoluzione già prima di salpare a Londra, ma già alla fine del Taccuino E, nel luglio del 1839, nonostante le integrazioni che si susseguirono nei successivi vent’anni sia nello Sketch del 1842 sia nell’Essay del 1844, la teoria dell’evoluzione era già essenzialmente completa.
(1) Niles Eldredge, Darwin. Alla scoperta dell’albero della vita, Codice edizioni, Torino 2006, p. 73.
(2) Charles Darwin, Taccuini, Editori Laterza, Roma-Bari 2008, p. VI
Simona Ruggeri
Porsi questa domanda, secondo Niles Eldredge, non è una “questione da poco”, parlandone a più riprese nel suo Darwin. Alla scoperta dell’albero della vita e ritornandoci nella sua prefazione ai Taccuini darwiniani, da poco pubblicati in italiano a cura di Telmo Pievani.
Secondo l’illustre studioso darwiniano «non sapremo mai quale fu in effetti il momento - la fase precisa della sua vita [...] in cui [Darwin] abbandonò il creazionismo per una storia naturalistica, una storia dell’evoluzione per cause naturali». Tuttavia, e risiede qui la forza e l’innovazione di questa tesi che sta raccogliendo sempre più consensi fra gli studiosi darwiniani, Eldredge è convinto che ciò avvenne già «a bordo del Beagle» (1).
Nei moltissimi appunti che Darwin prese in viaggio, sugli animali, sui fossili, ma anche riguardo alla natura dell’estinzione, egli infatti rintraccia le «primissime elucubrazioni» (2), per quanto ancora criptiche, di quella che oggi si definisce “teoria evolutiva”. La cautela che Darwin adoperò a bordo nel trattare seriamente la possibilità che le specie non fossero immutabili, cioè che in realtà potessero trarre origine da cause naturali, non portò nessun passeggero sul brigantino a interpretare questi brevi saggi come “ereticamente” trasmutazionali; questo atteggiamento reticente ha perciò indotto alcuni «studiosi» dei nostri giorni a non considerare (erroneamente secondo Eldredge) Darwin un “evoluzionista” prima del suo ritorno a Londra.
Il naturalista, pur nascondendo al pubblico la sua “tribolata” scoperta (e non folgorazione!) fino a quando non “fu stanato” da Wallace, esplicita le sue concezioni evoluzionistiche solo dopo il suo ritorno in patria nell’ottobre del 1836, nei taccuini, senz’altro più dettagliati dei diari stesi sul Beagle ma pur sempre “appunti”, pieni quindi di commistioni di generi e stilisticamente poco rifiniti e coerenti. Nella seconda parte Taccuino Rosso, cominciato sul Beagle e terminato a Londra nel 1837, Darwin “abbozza” quella che sarà la teoria dell’evoluzione per selezione naturale, arricchendo in maniera sostanziale la versione “criptica” della nozione della trasmutazione presente negli appunti di viaggio; nel 1837, con il primo trasmutation notebook, ossia il Taccuino B che fu “siglato” con il primo albero dell’evoluzione, Darwin trasforma il suo approccio evoluzionistico da “saltazionista” a ipotetico-deduttivo e ricerca la “causa” dell’evoluzione, definita poi “selezione naturale”nel Taccuino D e sviluppata in maniera chiara e definitiva nel Taccuino E.
Non solo per Eldredge allora Darwin manifestava nozioni “embrionali” dell’evoluzione già prima di salpare a Londra, ma già alla fine del Taccuino E, nel luglio del 1839, nonostante le integrazioni che si susseguirono nei successivi vent’anni sia nello Sketch del 1842 sia nell’Essay del 1844, la teoria dell’evoluzione era già essenzialmente completa.
(1) Niles Eldredge, Darwin. Alla scoperta dell’albero della vita, Codice edizioni, Torino 2006, p. 73.
(2) Charles Darwin, Taccuini, Editori Laterza, Roma-Bari 2008, p. VI
Simona Ruggeri
Sempre più fossili viventi
Ritrovato un esemplare di xifosuro risalente a circa 445 milioni di anni fa, che presenta le caratteristiche morfologiche tipiche delle poche specie di questo gruppo ancora esistenti. La morfologia di questi animali si è mantenuta pressoché immutata per centinaia di milioni di anni.
Le forme di vita sulla Terra si sono modificate e avvicendate nel corso dei milioni di anni e anche all'interno dei singoli taxa si sono verificati importanti cambiamenti morfologici documentati nei reperti fossili. Esistono tuttvia alcuni gruppi tassonomici che hanno avuto una storia evolutiva particolare, subendo apparentemente poche modificazioni alle strutture corporee. Uno di questi è costituito dagli xifosuri (classe: Merostomata; sottoclasse: Xiphosura), un taxon di invertebrati marini, strettamente imparentato ai ragni e agli scorpioni moderni e ai giganteschi estinti euripteridi (vedi Il più grande artropode mai esistito: uno scorpione d'acqua del Devoniano), di cui oggi sopravvivono solo 6 specie.
Gli xifosuri, come si può vedere dalla foto che immortala esemplari di Limulus polyphemus, presentano una morfologia corporea particolare e molto "primitiva": possiedono una spina caudale postanale e un carapace robusto, che protegge una serie di zampe articolate e alcune paia di branchie lamellari. Questa struttura corporea si ripete nelle specie esistenti, ma è anche presente, con alcune piccole differenze morfologiche, in quelle estinte fino ad ora documentate.
Il piano corporeo così descritto si ripresenta in un esemplare di questo gruppo, ma di specie e genere nuovo alla scienza, rinvenuto da paleontologi del Royal Ontario Museum e risalente a circa 445 milioni di anni fa. Questo indica che le caratteristiche fondamentali di questo taxon molto conservato si sono evolute molto presto, già nell'Ordoviciano, quasi 100 milioni prima di quanto si pensasse fino ad ora.
La nuova specie, descritta sulla rivista Palaeontology, è stata deniminata Lunataspis aurora.
Andrea Romano
Le forme di vita sulla Terra si sono modificate e avvicendate nel corso dei milioni di anni e anche all'interno dei singoli taxa si sono verificati importanti cambiamenti morfologici documentati nei reperti fossili. Esistono tuttvia alcuni gruppi tassonomici che hanno avuto una storia evolutiva particolare, subendo apparentemente poche modificazioni alle strutture corporee. Uno di questi è costituito dagli xifosuri (classe: Merostomata; sottoclasse: Xiphosura), un taxon di invertebrati marini, strettamente imparentato ai ragni e agli scorpioni moderni e ai giganteschi estinti euripteridi (vedi Il più grande artropode mai esistito: uno scorpione d'acqua del Devoniano), di cui oggi sopravvivono solo 6 specie.
Gli xifosuri, come si può vedere dalla foto che immortala esemplari di Limulus polyphemus, presentano una morfologia corporea particolare e molto "primitiva": possiedono una spina caudale postanale e un carapace robusto, che protegge una serie di zampe articolate e alcune paia di branchie lamellari. Questa struttura corporea si ripete nelle specie esistenti, ma è anche presente, con alcune piccole differenze morfologiche, in quelle estinte fino ad ora documentate.
Il piano corporeo così descritto si ripresenta in un esemplare di questo gruppo, ma di specie e genere nuovo alla scienza, rinvenuto da paleontologi del Royal Ontario Museum e risalente a circa 445 milioni di anni fa. Questo indica che le caratteristiche fondamentali di questo taxon molto conservato si sono evolute molto presto, già nell'Ordoviciano, quasi 100 milioni prima di quanto si pensasse fino ad ora.
La nuova specie, descritta sulla rivista Palaeontology, è stata deniminata Lunataspis aurora.
Andrea Romano
Darwin sul Guardian
Sul sito del Guardian potete accedere ad un interessante e completo dossier su Darwin e su "L'origine delle specie", in cui vengono analizzati e commentati tutti i capitoli dell'opera.
Sono inoltre disponibili numerose notizie, recensioni e interviste che riguardano il grande naturalista inglese.
Assolutamente da non perdere!
Sono inoltre disponibili numerose notizie, recensioni e interviste che riguardano il grande naturalista inglese.
Assolutamente da non perdere!
L'evoluzione della razionalità. Naturalmente: Hume, Darwin e le neuroscienze
Con l'autorizzazione degli interessati, segnalo la tesi di Simona Ruggeri dal titolo "L'evoluzione della razionalità. Naturalmente: Hume, Darwin e le neuroscienze". (Laurea specialistica in Filosofia e studi teorico-critici, cattedra di Filosofia morale, a.a. 2005/2006, Università La Sapienza di Roma. Relatore: prof. Alessandra Attanasio)
Ecco l'indice
Introduzione 1- Due modi della razionalità antiempiristica 1.1- I fondamenti della razionalità in René Descartes 1.2- La razionalità trascendentale di Immanuel Kant 2- Due forme di razionalità empirica 2.1- La razionalità dimostrativa di John Locke 2.2- La razionalità istinto di David Hume 3- La nozione di ragione da Darwin alle neuroscienze 3.1- Le "ragioni dimenticate" di Charles Darwin 3.2- La razionalità incarnata nelle neuroscienze
Riportiamo l'abstract
Oggetto di questa tesi è l’analisi delle principali “tappe evolutive” della nozione di ragione. La riflessione sulle principali “forme” di razionalità, da Descartes a Locke, da Hume a Kant, da Darwin ai risultati sperimentali delle neuroscienze contemporanee, è un percorso che può definirsi una storia naturale della mente. Dall’analisi di una ragione totalmente separata e gerarchicamente superiore al corpo, tipica di René Descartes e di Immanuel Kant, si passa a quella delle “forme” di razionalità empirica, dall’empirismo “razionalistico” di John Locke a quello di David Hume caratterizzato da quella razionalità evolutivo-selettiva che suscita l’attenzione di Darwin nei Notebooks. Infine l’analisi della coscienza del neuroscienziato Gerald Edelman, che sembra confermare sperimentalmente la linea Hume-Darwin di una razionalità socio-bio-cognitiva.
L’analisi inizia con Descartes con la discussione della ratio come ‘intellezione’, indipendente e separata dai corpi, prosegue con quella della ragione ‘pura’ di Kant, ‘forma’ della conoscenza e dell’azione, che schematizza e istruisce a priori le cose del mondo. Si passa quindi a Locke, che, nonostante il suo empirismo, presenta, sia in epistemologia che in morale, una ragione rivolta alla «scoperta della certezza» della verità. Tutte queste concezioni che pongono, da un lato, sensazioni, percezioni, emozioni, passioni, e dall’altro riflessione, giudizio, ragionamento, vengono messe in discussione dalla filosofia di Hume.
Se con Locke abbiamo una concezione empiristica della mente con forti contaminazioni razionalistiche, l’ empirismo radicale e sofisticato di Hume compie il passo decisivo verso quella ragione, ‘meraviglioso e inintellegibile istinto’, che Charles Darwin interpreterà, in linea con la sua teoria dell’evoluzione per selezione naturale, come ragione graduale. Hume, inglobando nell’idea di ragione la corporeità, le emozioni e le azioni, riconduce dentro la “percezione” i processi più astratti e razionali della cognizione, restituendo agli esseri umani quella unità mente-corpo negata dalle filosofie ‘disincarnate’. Sulla scia della ragione-istinto di Hume, Darwin definisce gli istinti come “ragioni dimenticate”, cioè conoscenze ereditarie acquisite attraverso abiti. La ragione, da ratio certa e ferma, diventa così “ragione graduale”, progressiva e regressiva, con processi consci e non consci, in continua interazione con la storia naturale e culturale della specie.
Infine, la teoria della selezione dei gruppi neuronali di G. M. Edelman porta a termine il programma di Darwin. In particolare, con la sua teoria della ‘coscienza’ come “processo fisico” la razionalità diventa pienamente “incarnata”, lontana sia dai modelli idealistico-razionalistici, sia da quelli logicistici, istruzionistici o computazionali.
Chiunque fosse interessato alla lettura completa del testo può contattare direttamente l'autrice a questo indirizzo mail: simonaruggeri2@virgilio.it
Ecco l'indice
Introduzione 1- Due modi della razionalità antiempiristica 1.1- I fondamenti della razionalità in René Descartes 1.2- La razionalità trascendentale di Immanuel Kant 2- Due forme di razionalità empirica 2.1- La razionalità dimostrativa di John Locke 2.2- La razionalità istinto di David Hume 3- La nozione di ragione da Darwin alle neuroscienze 3.1- Le "ragioni dimenticate" di Charles Darwin 3.2- La razionalità incarnata nelle neuroscienze
Riportiamo l'abstract
Oggetto di questa tesi è l’analisi delle principali “tappe evolutive” della nozione di ragione. La riflessione sulle principali “forme” di razionalità, da Descartes a Locke, da Hume a Kant, da Darwin ai risultati sperimentali delle neuroscienze contemporanee, è un percorso che può definirsi una storia naturale della mente. Dall’analisi di una ragione totalmente separata e gerarchicamente superiore al corpo, tipica di René Descartes e di Immanuel Kant, si passa a quella delle “forme” di razionalità empirica, dall’empirismo “razionalistico” di John Locke a quello di David Hume caratterizzato da quella razionalità evolutivo-selettiva che suscita l’attenzione di Darwin nei Notebooks. Infine l’analisi della coscienza del neuroscienziato Gerald Edelman, che sembra confermare sperimentalmente la linea Hume-Darwin di una razionalità socio-bio-cognitiva.
L’analisi inizia con Descartes con la discussione della ratio come ‘intellezione’, indipendente e separata dai corpi, prosegue con quella della ragione ‘pura’ di Kant, ‘forma’ della conoscenza e dell’azione, che schematizza e istruisce a priori le cose del mondo. Si passa quindi a Locke, che, nonostante il suo empirismo, presenta, sia in epistemologia che in morale, una ragione rivolta alla «scoperta della certezza» della verità. Tutte queste concezioni che pongono, da un lato, sensazioni, percezioni, emozioni, passioni, e dall’altro riflessione, giudizio, ragionamento, vengono messe in discussione dalla filosofia di Hume.
Se con Locke abbiamo una concezione empiristica della mente con forti contaminazioni razionalistiche, l’ empirismo radicale e sofisticato di Hume compie il passo decisivo verso quella ragione, ‘meraviglioso e inintellegibile istinto’, che Charles Darwin interpreterà, in linea con la sua teoria dell’evoluzione per selezione naturale, come ragione graduale. Hume, inglobando nell’idea di ragione la corporeità, le emozioni e le azioni, riconduce dentro la “percezione” i processi più astratti e razionali della cognizione, restituendo agli esseri umani quella unità mente-corpo negata dalle filosofie ‘disincarnate’. Sulla scia della ragione-istinto di Hume, Darwin definisce gli istinti come “ragioni dimenticate”, cioè conoscenze ereditarie acquisite attraverso abiti. La ragione, da ratio certa e ferma, diventa così “ragione graduale”, progressiva e regressiva, con processi consci e non consci, in continua interazione con la storia naturale e culturale della specie.
Infine, la teoria della selezione dei gruppi neuronali di G. M. Edelman porta a termine il programma di Darwin. In particolare, con la sua teoria della ‘coscienza’ come “processo fisico” la razionalità diventa pienamente “incarnata”, lontana sia dai modelli idealistico-razionalistici, sia da quelli logicistici, istruzionistici o computazionali.
Chiunque fosse interessato alla lettura completa del testo può contattare direttamente l'autrice a questo indirizzo mail: simonaruggeri2@virgilio.it
Con Dio e con Darwin ovvero se evoluzione fa rima con religione
Un breve articolo di Edoardo Boncinelli a proposito dell'ultimo libro di Michele Luzzatto "Preghiera Darwiniana" e sulle implicazioni della teoria darwiniana nel campo socio-politico, filosofico e teologico, pubblicato sul numero di ieri del Corriere della Sera (pag.42).
Da qui potete accedere al testo completo.
Andrea Romano
Da qui potete accedere al testo completo.
Andrea Romano
Ultimo numero di Journal of Anthropological Sciences
Evoluzione dell'uomo e dei primati nell'ultimo numero di JAS: articoli disponibili online, molti dei quali firmati da ricercatori italiani.
Segnalo alcuni interessanti articoli, molti dei quali liberamente accessibili online, pubblicati su Journal of Anthropological Sciences, Volume 85 (2007).
3 The genetic history of Italy: a male perspective Cristian Capelliliberamente disponibile
7-35 The taxonomic diversity of Colobinae of Africa Colin Groves liberamente disponibile
35-62 The imitation faculty in monkeys: evaluating its features, distribuition and evolution Francys Subiaul liberamente disponibile
63-81 Play at work: revisiting data focusing on chimpanzees (Pan troglodytes) Elisabetta Palagi
83-100 Distinctively human: cerebral lateralisation and language in Homo sapiens Steven A. Chance & Timothy J. Crow
139-146 Neanderthals, Homo sapiens and the question of species in Paleoanthropology Ian Tattersal liberamente disponibile
221-239 Ethics and altruism in the human evolutionary history Enrico Alleva, Fiorenzo Facchini, Orlando Franceschelli, Bonaventura Majolo, Alberto Oliverio, Gabriele Schino & Augusto Vitale
liberamente disponibile
Andrea Romano
Segnalo alcuni interessanti articoli, molti dei quali liberamente accessibili online, pubblicati su Journal of Anthropological Sciences, Volume 85 (2007).
3 The genetic history of Italy: a male perspective Cristian Capelliliberamente disponibile
7-35 The taxonomic diversity of Colobinae of Africa Colin Groves liberamente disponibile
35-62 The imitation faculty in monkeys: evaluating its features, distribuition and evolution Francys Subiaul liberamente disponibile
63-81 Play at work: revisiting data focusing on chimpanzees (Pan troglodytes) Elisabetta Palagi
83-100 Distinctively human: cerebral lateralisation and language in Homo sapiens Steven A. Chance & Timothy J. Crow
139-146 Neanderthals, Homo sapiens and the question of species in Paleoanthropology Ian Tattersal liberamente disponibile
221-239 Ethics and altruism in the human evolutionary history Enrico Alleva, Fiorenzo Facchini, Orlando Franceschelli, Bonaventura Majolo, Alberto Oliverio, Gabriele Schino & Augusto Vitale
liberamente disponibile
Andrea Romano
Il Pastafarianesimo e le sue implicazioni filosofiche
Flying Spaghetti Monster: Why not?
Come segnalato da Pikaia qui, il Consiglio di Europa ha votato una risoluzione che vieta l'insegnamento del Creazionismo nelle scuole. L'Italia si è distinta per il fatto che dei suoi quattro rappresentanti, 3 abbiano votato contro. I dettagli qui.
Ciò che è scandaloso è che nessuno abbia parlato in quella occasione del Pastafarianesimo e delle sue implicazioni sull'origine dell’universo, della vita sulla terra e dell'uomo, nonché dei disastri naturali. In allegato una guida essenziale al culto del Mostro degli Spaghetti.
Stefano Dalla Casa
Come segnalato da Pikaia qui, il Consiglio di Europa ha votato una risoluzione che vieta l'insegnamento del Creazionismo nelle scuole. L'Italia si è distinta per il fatto che dei suoi quattro rappresentanti, 3 abbiano votato contro. I dettagli qui.
Ciò che è scandaloso è che nessuno abbia parlato in quella occasione del Pastafarianesimo e delle sue implicazioni sull'origine dell’universo, della vita sulla terra e dell'uomo, nonché dei disastri naturali. In allegato una guida essenziale al culto del Mostro degli Spaghetti.
Stefano Dalla Casa
Un libro di bioetica… evoluto. Ovvero, come portare correttamente l’evoluzione nel dibattito bioetico
Segnalo la recensione del libro di Raffaele Prodomo, "La Natura umana. Evoluzionismo e storicismo" a cura di Emanuele Serrelli.
Recensione di:
Raffaele Prodomo, La Natura umana. Evoluzionismo e storicismo, Costantino Marco Editore, Cosenza, 2007, pp. 148, € 20,00.
Delineati in modo sintetico ma, si spera, abbastanza chiaro il percorso evolutivo della vita sul nostro pianeta e la complessità delle dinamiche ontogenetiche, si può immaginare come tale conoscenza interagisca con le classiche descrizioni della natura umana offerte dalla filosofia.
Con queste parole comincia il nono capitolo de La Natura umana di Raffaele Prodomo, preceduto da altri otto che utilizzano e fotografano in modo chiaro e sintetico i migliori lavori sull’evoluzione apparsi sulla scena internazionale negli ultimi trent’anni. Prodomo non inventa niente, e in questo caso è assolutamente un complimento: troppe volte abbiamo visto persone occuparsi di bioetica e non curarsi di conoscere in modo approfondito e di riportare in modo fedele il lavoro degli scienziati. Prodomo, medico e docente di bioetica, mostra invece una grande confidenza con le opere dei paleontologi Niles Eldredge e Stephen Jay Gould, dell’etologo Richard Dawkins, del paleoantropologo Ian Tattersall, dell’ecologo e antropologo Paul Ehrlich, del genetista Richard Lewontin, degli “psico-filosofi” Susan Oyama e Daniel Dennett, e di tanti altri grandi scienziati come Ernst Mayr, Luca Cavalli Sforza, Patrick Bateson, Gerald Edelman, Stuart Kauffman, Humberto Maturana e Francisco Varela e così via, il repertorio bibliografico è veramente ampio e appropriato, e in questo bel testo troverete davvero una buona sintesi che – aspetto fondamentale – ben conserva la complessità del dibattito interno alle scienze della vita. Così, i primi otto capitoli di questo libro potrebbero essere letti a sé, consigliati come una sintetica introduzione all’evoluzione e all’affascinante pluralità delle voci, tutte pienamente scientifiche, che se ne occupano. Cosa unisce queste voci? La risposta di Prodomo è anche il cuore del suo messaggio: un comune impegno nel costruire una narrazione storica, una narrazione dell’evoluzione che “stia in piedi”, che sia sensata e razionale e che sia insieme corale. Una narrazione, quindi, che necessariamente evolve essa stessa. Nel momento in cui vi è la tensione di ognuno nel contribuire alla narrazione con la propria specificità, ma anche il tentativo costante di risolvere le reciproche incoerenze e incompatibilità, la pluralità di punti di vista arricchisce la narrazione, la rende più forte e complessa, non più debole e confusa. Degli scienziati che si occupano di evoluzione, Prodomo apprezza e testimonia questo storicismo pluralista, e vi avverte una via verso la corretta trattazione delle questioni bioetiche.
Prodomo, l’abbiamo detto, non inventa niente. Ci pare prenda a prestito, dal neuroscienziato Steven Rose (Il cervello del ventunesimo secolo, Codice Edizioni), addirittura la struttura argomentativa del libro, che racconta e intreccia la filogenesi (la storia evolutiva delle specie) con l’ontogenesi (lo sviluppo dell’organismo individuale), partendo da lontano nel tentativo ultimo di spiegare cosa sia l’uomo e quale sia la sua posizione nella natura. Contingenza o determinazione, ritmo o ritmi, specie, linearità o cespuglio, sviluppo e ruolo dei geni… sembra quasi di vedere Prodomo trasportare fisicamente nel dibattito bioetico i libri che contengono il grandissimo lavoro filosofico ed epistemologico portato avanti in questi anni dagli scienziati stessi, evidentemente ignorati seppur molto tradotti in italiano, e di sentirlo dire ai suoi colleghi e a noi: gli studi ci sono, però bisogna leggerli!
È l’autore stesso che con questo libro dà un esempio di pluralismo evitando di “gerarchizzare” i saperi: da una parte, invocando la scienza correttamente, laddove spesso “si fa la morale alla scienza” senza lasciarle diritto di parola; dall’altra, evitando di pretendere dalla scienza una risposta univoca ai problemi etici, ovvero di “chiedere alla scienza di fare la morale”.
Sul contenuto più strettamente filosofico de La Natura umana, purtroppo chi scrive non ha sufficienti strumenti per esprimere un giudizio. O forse è una fortuna, che permetterà ad ognuno di confrontarsi da sé con la proposta di storicismo pluralistico di Prodomo, che attinge a fonti come Giambattista Vico e Benedetto Croce, accostati a Charles Darwin che fa la sua bella figura tra i due, e a confronto con pensatori quali Jean Paul Sartre e Friedrich Nietzsche. Perché, se è vero che dobbiamo pretendere dai filosofi e dai bioeticisti di confrontarsi con la scienza che tanto ci appassiona, anche noi non possiamo scrollare le spalle davanti a un dibattito filosofico che ci coinvolge tutti, che ha ripercussioni dirette sulle nostre vite, e che si occupa di temi sui quali siamo chiamati a prendere decisioni. Anche qui il libro di Prosdocimi non delude, spiegandoci con poche nette pennellate problemi come la moderna trasformazione della relazione terapeutica, i rischi di normative generiche o ambigue, l’irrompere della bioetica laddove l’etica medica classica non basta più, l’ampliamento della sua sfera di pertinenza, l’interdisciplinarietà e la rete tra i saperi in gioco.
Da non perdere, questo piccolo bel libro evoluto!
Emanuele Serrelli
Altri libri di Raffaele Prodomo:
Introduzione alla bioetica, La Città del Sole, 2006
Lineamenti di una bioetica liberale, Alberto Perdisa Editore, 2003
L'embrione tra etica e biologia. Un'analisi bioetica sulle radici della vita, Edizioni Scientifiche Italiane, 1998
Le nuove dimensioni della relazione terapeutica, Macro Edizioni, 1999
Medicina e libertà individuali, AGE-Alfredo Guida Editore, 1997
Questioni di etica medica. Fondamenti per una bioetica storicista, T. Pagano, 1992
Recensione di:
Raffaele Prodomo, La Natura umana. Evoluzionismo e storicismo, Costantino Marco Editore, Cosenza, 2007, pp. 148, € 20,00.
Delineati in modo sintetico ma, si spera, abbastanza chiaro il percorso evolutivo della vita sul nostro pianeta e la complessità delle dinamiche ontogenetiche, si può immaginare come tale conoscenza interagisca con le classiche descrizioni della natura umana offerte dalla filosofia.
Con queste parole comincia il nono capitolo de La Natura umana di Raffaele Prodomo, preceduto da altri otto che utilizzano e fotografano in modo chiaro e sintetico i migliori lavori sull’evoluzione apparsi sulla scena internazionale negli ultimi trent’anni. Prodomo non inventa niente, e in questo caso è assolutamente un complimento: troppe volte abbiamo visto persone occuparsi di bioetica e non curarsi di conoscere in modo approfondito e di riportare in modo fedele il lavoro degli scienziati. Prodomo, medico e docente di bioetica, mostra invece una grande confidenza con le opere dei paleontologi Niles Eldredge e Stephen Jay Gould, dell’etologo Richard Dawkins, del paleoantropologo Ian Tattersall, dell’ecologo e antropologo Paul Ehrlich, del genetista Richard Lewontin, degli “psico-filosofi” Susan Oyama e Daniel Dennett, e di tanti altri grandi scienziati come Ernst Mayr, Luca Cavalli Sforza, Patrick Bateson, Gerald Edelman, Stuart Kauffman, Humberto Maturana e Francisco Varela e così via, il repertorio bibliografico è veramente ampio e appropriato, e in questo bel testo troverete davvero una buona sintesi che – aspetto fondamentale – ben conserva la complessità del dibattito interno alle scienze della vita. Così, i primi otto capitoli di questo libro potrebbero essere letti a sé, consigliati come una sintetica introduzione all’evoluzione e all’affascinante pluralità delle voci, tutte pienamente scientifiche, che se ne occupano. Cosa unisce queste voci? La risposta di Prodomo è anche il cuore del suo messaggio: un comune impegno nel costruire una narrazione storica, una narrazione dell’evoluzione che “stia in piedi”, che sia sensata e razionale e che sia insieme corale. Una narrazione, quindi, che necessariamente evolve essa stessa. Nel momento in cui vi è la tensione di ognuno nel contribuire alla narrazione con la propria specificità, ma anche il tentativo costante di risolvere le reciproche incoerenze e incompatibilità, la pluralità di punti di vista arricchisce la narrazione, la rende più forte e complessa, non più debole e confusa. Degli scienziati che si occupano di evoluzione, Prodomo apprezza e testimonia questo storicismo pluralista, e vi avverte una via verso la corretta trattazione delle questioni bioetiche.
Prodomo, l’abbiamo detto, non inventa niente. Ci pare prenda a prestito, dal neuroscienziato Steven Rose (Il cervello del ventunesimo secolo, Codice Edizioni), addirittura la struttura argomentativa del libro, che racconta e intreccia la filogenesi (la storia evolutiva delle specie) con l’ontogenesi (lo sviluppo dell’organismo individuale), partendo da lontano nel tentativo ultimo di spiegare cosa sia l’uomo e quale sia la sua posizione nella natura. Contingenza o determinazione, ritmo o ritmi, specie, linearità o cespuglio, sviluppo e ruolo dei geni… sembra quasi di vedere Prodomo trasportare fisicamente nel dibattito bioetico i libri che contengono il grandissimo lavoro filosofico ed epistemologico portato avanti in questi anni dagli scienziati stessi, evidentemente ignorati seppur molto tradotti in italiano, e di sentirlo dire ai suoi colleghi e a noi: gli studi ci sono, però bisogna leggerli!
È l’autore stesso che con questo libro dà un esempio di pluralismo evitando di “gerarchizzare” i saperi: da una parte, invocando la scienza correttamente, laddove spesso “si fa la morale alla scienza” senza lasciarle diritto di parola; dall’altra, evitando di pretendere dalla scienza una risposta univoca ai problemi etici, ovvero di “chiedere alla scienza di fare la morale”.
Sul contenuto più strettamente filosofico de La Natura umana, purtroppo chi scrive non ha sufficienti strumenti per esprimere un giudizio. O forse è una fortuna, che permetterà ad ognuno di confrontarsi da sé con la proposta di storicismo pluralistico di Prodomo, che attinge a fonti come Giambattista Vico e Benedetto Croce, accostati a Charles Darwin che fa la sua bella figura tra i due, e a confronto con pensatori quali Jean Paul Sartre e Friedrich Nietzsche. Perché, se è vero che dobbiamo pretendere dai filosofi e dai bioeticisti di confrontarsi con la scienza che tanto ci appassiona, anche noi non possiamo scrollare le spalle davanti a un dibattito filosofico che ci coinvolge tutti, che ha ripercussioni dirette sulle nostre vite, e che si occupa di temi sui quali siamo chiamati a prendere decisioni. Anche qui il libro di Prosdocimi non delude, spiegandoci con poche nette pennellate problemi come la moderna trasformazione della relazione terapeutica, i rischi di normative generiche o ambigue, l’irrompere della bioetica laddove l’etica medica classica non basta più, l’ampliamento della sua sfera di pertinenza, l’interdisciplinarietà e la rete tra i saperi in gioco.
Da non perdere, questo piccolo bel libro evoluto!
Emanuele Serrelli
Altri libri di Raffaele Prodomo:
Introduzione alla bioetica, La Città del Sole, 2006
Lineamenti di una bioetica liberale, Alberto Perdisa Editore, 2003
L'embrione tra etica e biologia. Un'analisi bioetica sulle radici della vita, Edizioni Scientifiche Italiane, 1998
Le nuove dimensioni della relazione terapeutica, Macro Edizioni, 1999
Medicina e libertà individuali, AGE-Alfredo Guida Editore, 1997
Questioni di etica medica. Fondamenti per una bioetica storicista, T. Pagano, 1992
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